L’azione clandestina statunitense in Italia non si limitò al finanziamento occulto ai partiti

La consapevolezza di dover assumere un ruolo guida nei confronti dell’Europa, distrutta dalla guerra e minacciata dal comunismo, era quindi ben presente da parte delle autorità americane sin dalla fine del conflitto, ma fu enunciata pubblicamente da Truman soltanto nel marzo 1947. In un discorso in cui sottolineava l’incertezza e l’instabilità del periodo storico, il presidente faceva riferimento anche alle aspettative che i popoli europei riponevano nella leadership degli Stati Uniti, unico gigante economico nel mondo, e all’impegno del popolo americano ad assumersi il proprio ruolo di guida <258. L’attuazione del Piano Marshall, finalizzato a dare un impulso alla ripresa economica dell’Europa, fu la prima iniziativa che corrispose alla presa di coscienza del nuovo ruolo internazionale degli Stati Uniti. Il Piano Marshall era funzionale all’instaurazione di un sistema di scambi internazionali efficiente, per il quale la ricostruzione dell’Europa era un presupposto fondamentale <259. Il piano Marshall nacque inoltre dalla preoccupazione con cui il governo americano assisteva alla progressiva espansione del modello comunista in Europa orientale e alla rapida crescita dei partiti comunisti dell’Europa occidentale, in particolare quelli di Italia e Francia. Riassestando l’economia e rialzando i bassi standard di vita del dopoguerra, si pensava fosse possibile porre in argine all’ascesa del comunismo in tutte le zone a rischio <260.
La necessità di corredare il piano economico di una “coerenza politica” rese urgente porre alla guida delle economie europee forze politiche più vicine agli interessi degli Stati Uniti, le uniche ritenute in grado di completare un progetto liberale e multilaterale come il Piano Marshall. Di qui emerse l’esigenza di estromettere i partiti comunisti dalle coalizioni di governo, dipendenti invece dalle esigenze sovietiche e a favore di un’economia centralizzata ed autarchica <261. In Italia l’estromissione avvenne nel maggio 1947, con l’insediamento del quarto governo De Gasperi, di cui non facevano parte comunisti e socialisti <262. A proposito dell’esclusione dei comunisti dal governo italiano, si è fatto spesso riferimento alle formule di “democrazia bloccata” “democrazia incompiuta”, oppure di “bipartitismo imperfetto” <263. Quella italiana era una Repubblica ufficialmente aperta al ricambio di governo, possibilità tra l’altro garantita dalla Costituzione, ma di fatto bloccata rispetto ad ogni possibile alternativa, in quanto il Pci si muoveva al di fuori della fedeltà atlantica e avrebbe potuto, una volta ottenuto il potere, abbandonare quello schieramento. In questo contesto, quindi, la democrazia italiana non funzionava in modo fisiologico, perché l’alternanza delle diverse componenti politiche al governo del Paese, benchè formalmente garantita, era materialmente impedita da un meccanismo che escludeva i comunisti dai processi decisionali ed esacerbava lo scontro ideologico con questa componente della democrazia italiana. Lo stesso avvenne anche in altri paesi europei appartenenti all’orbita occidentale. In Francia, in maniera del tutto analoga e contemporaneamente al caso italiano, il Presidente del Consiglio Ramadier approfittò di un voto contrario espresso dal Partito comunista francese sulla politica economica del governo, per attivare la procedura inedita della revoca dei cinque ministri comunisti che facevano parte del governo (éviction) <264.
Oltre che con queste azioni di carattere diplomatico, la dominazione statunitense in Europa si espresse anche attraverso le covert operations, di cui si è già parlato. Ad essere principalmente presi come obiettivo furono soprattutto Francia e Italia, i cui partiti comunisti avevano un seguito maggiore rispetto agli altri paesi europei. La campagna clandestina volta a finanziare i principali partiti non comunisti in prossimità delle elezioni italiane del 1948 fu assunta come modello di riferimento per interventi successivi, in quanto a Washington si ritenne di aver individuato lo strumento più adatto ad estromettere le sinistre dai governi europei <265. Si trattava infatti di un modello facilmente replicabile, in quanto basato su pochi elementi: l’appoggio di personale locale filo americano da istruire ed utilizzare, la disponibilità di fondi clandestini da destinare alle operazioni in oggetto, un’agenzia, la Cia, che coordinasse l’operazione e distribuisse i finanziamenti <266.
L’azione clandestina in Italia non si limitò al finanziamento occulto ai partiti, ma si estese fino a comprendere la predisposizione di un vero e proprio piano d’azione a sostegno del governo italiano, da attivare in caso di vittoria del Fronte popolare alle elezioni, oppure nell’eventualità di una rivolta comunista a fronte di una potenziale sconfitta (il Piano X) <267. Il Piano X per la tutela dell’ordine pubblico in caso di azioni eversive prevedeva: 1) la fornitura di ingenti quantitativi di armi a De Gasperi, 2) l’assistenza, il finanziamento e l’armamento di movimenti anticomunisti legati a forze reazionarie, spesso addirittura neofasciste, affinché promuovessero quelle azioni di sabotaggio, di guerriglia e di disturbo poi attribuite ai partiti del Fronte popolare <268. Gli Stati Uniti fecero inoltre ricorso a finanziamenti a vantaggio di organizzazioni anticomuniste, come i Comitati civici di Gedda, allo scopo di esercitare pressioni sul governo affinchè adottasse iniziative più efficaci e radicali contro il comunismo <269. Le iniziative clandestine degli Stati Uniti in Italia si estero anche al campo sindacale. In questo settore, lo scopo principale era quello di favorire sindacati anticomunisti e apartitici, più vicini agli interessi statunitensi rispetto ai sindacati di matrice comunista. Ad esempio la Cgil avrebbe potuto sabotare gli obiettivi del Piano Marshall e della ricostruzione economica dell’Italia. A questo scopo fu messa in campo l’American Federation of Labor (Afl), e furono impiegati i fondi del Piano Marshall destinati agli Usa per coprire le spese amministrative <270. La campagna promossa dagli Stati Uniti in Italia fu determinante ai fini dei risultati elettorali, che videro il 48% dei voti andare alla Dc e al Pr. Oltre che ai finanziamenti occulti, la vittoria delle forze moderate fu ottenuta anche grazie alla minaccia di escludere l’Italia dai benefici del Piano Marshall in caso di affermazione delle forze di sinistra, e alla mobilitazione della Chiesa nella crociata anticomunista. Bisogna poi considerare il peso esercitato dall’attrazione per il modello americano, e dalla paura diffusa in certi ambienti sociali nei confronti del comunismo, che nella primavera era andato al potere in Cecoslovaccia per mezzo di un colpo di stato.
L’intervento degli Stati Uniti contribuì comunque a produrre risultati importanti contro la sinistra in Italia <271. Nel gennaio 1947, si era giunti infatti alla spaccatura del Partito socialista, con la nascita del Partito Socialista dei lavoratori italiani (Psli) di Giuseppe Saragat <272. Più tardi, tra il luglio e l’agosto 1948, si ebbe anche la scissione della Cgl, da cui nel 1950 nacque la Cisl, collaterale alla Dc e anticomunista <273. Allo stesso modo, nel dicembre 1947, in Francia si arrivò alla scissione della Confédération Génération du Travail (Cgt) e alla nascita di Force Ouvrière <274.
[NOTE]
258 H. S. Truman, Address on Foreign Economic Policy, Delivered at Baylor University, 6 marzo 1947, disponibile al link: https://www.trumanlibrary.org/publicpapers/index.php?pid=2193&st=&st1=.
259 F. Catalano, Europa e Stati Uniti negli anni della guerra fredda. Economia e politica 1944-1956, Milano, Ili, 1972.
260 G. Mammarella, Destini incrociati, cit. pp. 158-159.
261 E. Di Nolfo, Europa e Stati Uniti tra il 1945 e il 1989, cit. p. 59.
262 S. Colarizi, Storia politica della Repubblica 1943-2006, Roma-Bari, Laterza, 2007.
263 G. Sartori, Bipartitismo imperfetto o pluralismo polarizzato?, in P. Farneti, Il sistema politico italiano, Bologna, Il Mulino, 1972; G. Galli, Il bipartitismo imperfetto: comunisti e democristiani in Italia, Milano, Mondadori, 1984; pp. 287-309; A. Lepre, Storia della Prima Repubblica, Bologna, Il Mulino, 1993, p. 188; U. Santino, La democrazia bloccata. La strage di Portella della Ginestra e l’emarginazione delle sinistre, Soveria Mannelli, Rubbettino, 1997; P. Craveri, La democrazia incompiuta: figure del ‘900 italiano, Venezia, Marsilio, 2002; S. Lupo, Partito e antipartito. Una storia politica della Prima Repubblica (1946-78), Roma, Donzelli, 2004.
264 I. M. Wall, The United States and the Making of Postwar France, 1945-1954, New York, Cambridge University Press, 1991, pp. 66 e ss; M. Lazar, S. Courtois, Histoire du Parti communiste français, Paris, Presses universitaries de France, 1995; P. Buton, L’éviction des ministres communistes, in S. Berstein, P. Milza (a cura di), L’année 1947, Paris, Presses de Sciences Po, pp. 339-355; A. Guiso, Partiti comunisti e la crisi del 1947 in Italia e in Francia. Una riconsiderazione in chiave comparativa, in “Ventunesimo Secolo”, 6, 12 (2007), pp. 131-168.
265 J. E. Miller, Taking off the gloves. The United States and the Italian elections of 1948, in “Diplomatic History”, 1 (1983): pp. 35-56; D. W. Ellwood, L’Europa ricostruita. Politica ed economia tra Stati Uniti ed Europa occidentale 1945-1955, Bologna, Il Mulino, 1994, pp. 155-159.
266 A. Colonna Vilasi, Storia della Cia, cit. p. 16.
267 P. Mastrolilli, M. Molinari, L’Italia vista dalla Cia 1948-2004, Roma-Bari, Laterza, 2005, pp. 3 e ss.
268 M. Fini, R. Faenza, Gli americani in Italia, Milano, Feltrinelli, 1976, p. 256.
269 I “Comitati civici” erano un’organizzazione creata dal Presidente di Azione Cattolica, Luigi Gedda, allo scopo di orientare la campagna elettorale nel senso di “una scelta di civiltà” e in funzione anticomunista, senza coinvolgere direttamente la Chiesa. Alla base della fiducia nutrita da Washington nei confronti di Gedda vi fu, molto probabilmente, una sorta di “autoinganno”, cioè la convizione che Gedda condividesse il modello di sviluppo statunitense e che fosse, grazie al suo “zelo organizzativo” e alla sua “attenzione”, l’unico in Italia a poter applicare le tecniche di guerra psicologica, in un quadro politico in cui la passitivà della Dc costituivano un ostacolo alla lotta contro il Pci. M. Del Pero, Gli Stati Uniti e la “guerra psicologica” in Italia (1948-1956), in “Studi Storici”, 39, 4 (1998): pp. 953-988. Per un resoconto della figura e delle attività di Luigi Gedda, si veda invece: S. Lanaro, Storia dell’Italia repubblicana: dalla fine della guerra agli anni Novanta, Venezia, Marsilio, 1992, pp. 100-105.
270 M. E. Guasconi, L’altra faccia della medaglia. Guerra psicologica e diplomazia sindacale nelle relazioni Italia-Stati Uniti durante la prima fase della guerra fredda, Soveria Mannelli, Rubbettino, 1999, pp. 51 e ss.
271 J. Harper, L’America e la ricostruzione dell’Italia 1945-1948, Bologna, Il Mulino, 1987, pp. 301-302; D. W. Ellwood, L’Europa ricostruita, cit. p. 158; S. Colarizi, Storia politica della Repubblica, cit. pp. 41 e ss.
272 Il motivo della scissione va ricercato nello scontro tra Nenni e Saragat. Il primo era intenzionato a non sciogliere l’alleanza con i comunisti, il secondo era invece convinto della necessità di rompere il Patto di unità d’azione, e di uniformarsi allo scontro internazionale in atto prendendo posizione contro la dittatura sovietica. S. Colarizi, Storia politica della Repubblica, cit. p. 36.
273 M. E. Guasconi, L’altra faccia della medaglia, cit. pp. 54 e ss.; G. Formigoni, La scelta occidentale della Cisl. Giulio Pastore e l’azione sindacale tra guerra fredda e ricostruzione (1947-1951), Milano, Angeli, 1991.
274 J. Kantrowitz, L’influence américaine sur Force ouvrière: mythe ou réalité?, in “Revue française de science politique”, 28, 4 (1978): pp. 717-739; F. Romero, Gli Stati Uniti e il sindacalismo europeo 1944-1951, Roma, Edizioni Lavoro, 1989; R. Kuisel, Seducing the French. The Dilemma of Americanization, Berkeley, University of California Press, 1993; D. W. Ellwood, L’Europa ricostruita, cit. p. 193.
Letizia Marini, Resistenza antisovietica e guerra al comunismo in Italia. Il ruolo degli Stati Uniti. 1949-1974, Tesi di dottorato, Università degli Studi di Macerata, 2020

Pubblicato in Senza categoria | Contrassegnato , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , | Lascia un commento

L’operazione militare tedesca partì il 27 novembre e si protrasse sino al 2 dicembre investendo inizialmente la Lunigiana

Isola Santa, Frazione del comune di Careggine (LU). Fonte: Wikipedia

A questo punto è interessante esaminare la relazione della IV^ compagnia del GPA [Gruppo Patrioti Apuani], comandata da Vinci Nicodemi, “Uberti” che, dal 22 ottobre, era stata dislocata in Garfagnana e che descrive in modo dettagliato le fasi dello scontro:
“13/15 novembre la Div. Lunense dopo accordi presi per radio con le truppe Brasiliane si prepara a sfondare a tergo le linee tedesche italiane. 16 nov. Alla 4^ compagnia viene ordinato di sbarrare la strada Capanne di Careggine – Colli. 19 nov. Il nemico attacca il distaccamento di Maggiorino sito alle coste. Il Maggiore Oldham ordina di rafforzare la nostra posizione alla Scala e prepararsi a difendere ad oltranza il paese di Colli. 20/26 nov. Continue puntate sulla strada Castelnuovo Arni infliggono al nemico forti perdite. Si distinguono in queste azioni il V. Comandante Tongiani Francesco ed il capo squadra Marchini Andrea. 27 nov. Il Maggiore Oldham conduce personalmente l’offensiva sulle forze
nemiche. Alla 4^ compagna ordina di disturbare ed immobilizzare il Presidio tedesco di Isola Santa [n.d.r.: Frazione del comune di Careggine, in provincia di Lucca], inoltre di prendere la strada Castelnuovo Arni. Resistere fino all’ultimo uomo in caso di forzamento della strada. Gli ordini vengono eseguiti scrupolosamente: 4 mitragliatrici leggere bloccano la strada. 25 uomini condotti dal Comandante Vinci piombano su Isola Santa e accerchiata la caserma nemica intimano la resa. Invece di arrendersi aprono un fuoco rabbioso. 3 ore di furioso combattimento poi il fuoco preciso delle nostre armi riduce al silenzio l’intero presidio. Siamo i padroni della situazione della situazione e continuiamo ad esserlo fino a che una staffetta del comando ci ordina il ritorno al campo. 30 nov. In un rapporto Ufficiali il Maggiore Oldham comunica a tutti i comandanti che lo schieramento Garfagnino cessa di essere e consiglia i reparti a passare le linee o a ritornare ai luoghi di provenienza. Il nemico da Foce di Mosceta spara con le sue batterie sulle nostre posizioni. Una fitta grandine di granate si abbatte sulla 4^ compagnia. Il V. comandante Tongiani Francesco fedele alle consegne avute non indietreggia di un passo e imperterrito subisce per l’intera giornata l’intenso cannoneggiamento. Alle 18 arriva al campo, il Comandante di ritorno da rapporto Ufficiali. Ordina di partire immediatamente. I sono molto utili per il trasporto del materiale bellico tre muli e 4 soldati tedeschi fatti prigionieri negli ultimi combattimenti. 1 dic. Ore 13 arrivo della 4^ compagnia a Forno […]” <370
Il ritorno della IV^ compagnia del GPA nella propria zona di appartenenza coincide, però, con una delle fasi più drammatiche della storia della resistenza apuana; l’operazione Catilina, il grosso rastrellamento tedesco compiuto dalla 148^ divisione di fanteria tedesca, coadiuvata dai battaglioni Kesselring e Mittenwald e dalla brigata nera di La Spezia che ebbe come obiettivo l’annientamento dei gruppi partigiani operanti a ridosso della Linea Gotica.
Prima di entrare nel merito è opportuno esaminare un documento presente in archivio, il verbale della riunione del CPLN, tenutasi il 20 novembre. Tra i vari punti affrontati nella riunione riporta: “Rastrellamento – Il rappresentante del partito socialista ha dato notizia che in zone dell’Italia sotto il controllo tedesco si stanno preparando forze volontarie composte da Milizia e da X Flottiglia Mas per fare una grande azione di rastrellamento nella provincia di Apuania.” <371
Il CPLN, quindi, aveva avuto notizia, attraverso i propri informatori, di un possibile rastrellamento ma, oltre ad allertare le formazioni partigiane, la soluzione individuata fu quella di rivolgersi al comando tedesco, facendo appello alla tregua stipulata qualche settimana prima mostrando un’ingenuità e una fiducia verso i tedeschi che appare sconcertante: “Il Comitato all’unanimità ha deciso di intensificare l’azione di sorveglianza da parte delle formazioni patriote e nello stesso tempo, ha dato mandato al Partito d’Azione e alla Democrazia Cristiana di inviare una commissione al locale Comando tedesco onde portarlo a conoscenza di quanto sopra affinché, in conformità agli accordi intervenuti con il Comitato Provinciale stesso, proibisca a tali forze di qualsiasi azione nelle zone della provincia o in caso contrario si astenga di intervenire a fianco delle forze suddette qualsiasi siano le conseguenze che possano derivare dall’intervento delle forze sopracitate.” <372
L’operazione militare tedesca partì il 27 novembre e si protrasse sino al 2 dicembre investendo inizialmente la Lunigiana, spostandosi poi verso il versante carrarese e massese delle Apuane. L’urto dell’azione tedesca costrinse i partigiani a ripiegare, gli uomini della Brigata Garibaldi “G. Menconi”, nuovo nome della Brigata “Muccini” di Carrara si portarono verso Massa ma il rastrellamento aveva investito ormai anche il territorio tenuto dal GPA. Moltissimi partigiani furono costretti a passare la linea del fronte e portarsi nel territorio già liberato dalle truppe americane. L’attacco tedesco nel versante di Massa avvenne il giorno 30 con un primo scontro a fuoco in località Tombara, sul monte Belvedere. Questa zona era presidiata dal secondo plotone della 1^ compagnia del GPA, comandato da Ivo Poletti. <373 Il giorno dopo questi inviò al comando una breve relazione: “Circa le ore 15 del giorno 30 una pattuglia tedesca di circa sette o otto uomini si è portata nei pressi del mio distaccamento in Tombara [n.d.r.: Frazione del comune di Massa] non rispettando la linea di demarcazione di cui agli accordi presi con quel Comando. Pertanto il Capo Squadra dei mitraglieri Ceccarelli Francesco con la mitragliatrice pesante apriva il fuoco ricacciando i tedeschi dalle loro posizioni. Dato l’allarme giungevano di rinforzo alcuni uomini della 7^ compagnia, mentre dalla Tombara il comandante di Plotone, Marcello non attenendosi alle ultime disposizioni impartite apriva il fuoco contro il comando tedesco. Alle 16,15 le batterie di Po giravano i pezzi in quel di Tombara ed iniziarono il martellamento delle nostre posizioni.” <374
Il 30, quindi, le prime pattuglie naziste si spinsero sulla montagna massese ma, già da alcuni giorni, il grosso della 1^ compagnia “G. Minuto”, comandata da “Vico”, la cui base operativa era situata sul monte Brugiana, si trovava impegnata in combattimenti contro i tedeschi essendo accorsi in supporto della Brigata Garibaldi “G. Menconi” per respingere l’attacco sul versante di Carrara: “Il giorno 28 veniva dato l’allarme al campo della 1^ compagnia da staffette provenienti da distaccamenti della Brigata Garibaldi che chiedevano immediati aiuti e rinforzi. Da notizia arrivate alla Brugiana era dichiarato che imponenti forze nazi-fasciste avevano bloccato da ogni lato la città di Carrara, ed altre protette da carri armati ed autoblinde pesanti armate da cannoni e da mitragliere da 20 mm tentavano l’attacco alle nostre posizioni del Monte Brugiana dal lato di Carrara. Il comandante Vico, visto che dalla parte di Massa non si delineava niente che facesse minimamente supporre un attacco anche dalla nostra parte, partiva con la totalità degli uomini e di armi per ricacciare le forze avanzanti nemiche. A difesa della nostra base rimanevano il distaccamento Bargana con 20 uomini comandati da Grassi[…] ed il distaccamento di Bergiola Maggiore con 50 uomini comandato dal Corsaro. Detti uomini rimanevano schierati sulle prime pendici sovrastanti la città di Massa, per eventuali attacchi anche da quella parte.” <375
Il reparto di Vico combatté due giorni assieme ai garibaldini presso il paese di Santa Croce sino a quando dalle alture sopra la città di Carrara non videro, nel pomeriggio del giorno 29, l’arrivo di un’imponente colonna tedesca, decidendo così lo sganciamento: “Verso le 15,30 dopo circa due ore che la città era completamente sguarnita da truppe tedesche e controllata da noi si cominciò a sentire in lontananza il fragore di una colonna in marcia. Dalla strada che da Marina porta a Carrara si cominciò a distinguere delle grosse macchine tedesche, cariche di soldati, accompagnate e scortate da carri armati e autoblinde.” <376
[NOTE]
370 AAM busta 28, fascicolo 5.
371 AAM busta 43, fascicolo 1.
372 Ibidem.
373 AAM busta 3, fascicolo 29. Il documento indirizzato al comando GPA con la dicitura
urgentissimo dà notizia dell’inizio dell’attacco tedesco.
374 AAM busta 18, fascicolo 13.
375 AAM busta 7, fascicolo 14.
375 AAM busta 7, fascicolo 14.
376 Ivi pag. 3.
Marco Rossi, Il Gruppo Patrioti Apuani attraverso le carte dell’archivio ANPI di Massa. Giugno-Dicembre 1944, Tesi di laurea, Università degli Studi di Pisa, 2016

Pubblicato in Senza categoria | Contrassegnato , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , | Lascia un commento

Negli anni che seguono la fine del conflitto, Marcuse continua il suo lavoro per il governo americano

Solo nell’ottobre del 1943, grazie all’American Jewish Committee, lo studio sugli aspetti culturali del nazionalsocialismo diventa un progetto fattibile, da noi conosciuto con il nome di “Studies in Prejudice” <158. Essi si pongono come una continuazione degli “Studi sull’autorità e la famiglia”, benché l’attenzione, negli anni Quaranta, sia centrata sulle forme di autoritarismo in America e sulle forme del conformismo imposto soprattutto in campo culturale. Da qui la scelta di Marcuse e di Horkheimer di definire il carattere affermativo della cultura.
Nel febbraio 1941 fu annunciato un progetto di analisi degli «aspetti culturali del nazionalsocialismo» sotto la duplice direzione di Horkheimer e di Eugene N. Anderson dell’American University di Washington. La divisione dei compiti era la seguente: Pollock doveva studiare la burocrazia, Lowenthal la letteratura e la cultura di massa, Horkheimer l’anticristianesimo, Neumann la struttura ideologica delle classi lavoratrici e delle nuove classi medie; Marcuse la guerra e la generazione del dopoguerra; Adorno l’arte e la musica. Grossmann doveva fare il «consulente per la storia economica, per la statistica e la scienza economica in tutte le sezioni in cui possano rientrare tali problemi». Il progetto, comunque, non poté essere realizzato per mancanza di un promotore che aiutasse la fondazione. Né fu possibile trovare denaro per continuare a pubblicare gli «Studies in Philosophy and Social Science» sotto forma di annuario. Solo con l’aiuto dell’American Jewish Committee, ottenuto nell’ottobre del 1943, l’Istituto riuscì a dedicare tutte le sue energie a un progetto ampio e costoso. La serie degli “Studies in Prejudice” ne fu il risultato <159.
Infine, una fonte supplementare di finanziamenti saranno le prestazioni di consulenza per il governo <160.
Caratterizzata da minore enfasi emotiva, ma simile per contenuti e sviluppi concreti, è stata anche la separazione dall’Istituto di Neumann e Kirchheimer, invitati delicatamente ma senza possibili equivoci da Horkheimer ad accettare offerte di lavoro provenienti da altre istituzioni – e in modo particolare dalle diverse agenzie governative di Washington – per l’impossibilità di sostenere ulteriormente i «costi» della loro attività per l’Istituto <161.
[NOTE]
158 Per analizzare il lavoro di report (mai pubblicato) di Paul Massing, a proposito delle ricerche della Scuola sull’antisemitismo, durante il periodo della seconda guerra mondiale, si consiglia M. P. WORRELL, Es Kommt Die Nacht: 1 Paul Massing, the Frankfurt School, and the Question of Labor Authoritarianism during World War II, in «Critical Sociology», XXXV, 2009, n. 5, pp. 629- 635.
159 M. JAY, L’immaginazione dialettica, cit., pp. 260-261.
160 Franz Neumnann, ad esempio, è il primo ad andare a Washington per dare il proprio contributo allo sforzo bellico. Nel 1942 entra nel Board of Economic Warfare come capo consulente e successivamente nell’Office of Strategic Services (OSS) come rappresentante del Research and Analysis Branch per il settore centro-europeo. Anche Otto Kirchheimer entra nell’OSS assieme a Herbert Marcuse, che prima aveva lavorato nell’Office of War Information (OWI). Frederick Pollock invece è consulente occasionale della divisione antitrust del Dipartimento della giustizia e del Ministero dell’economia di guerra.
161 F. NEUMANN, H. MARCUSE, O, KIRCHHEIMER, Il nemico tedesco. Scritti riservati sulla Germania nazista (1943-1945), cit., p. 14. Cfr. R. WIGGERSHAUS, La Scuola di Francoforte, Bollati Boringhieri, Torino, 1992, pp. 303-307 (ed. or. The Frankfurt School: Its History, Theories, and Political Significance, MIT Press, Cambridge, Mass. 1994).
Adele Valeria Messina, La distruzione degli ebrei e la sociologia. Dal 1933 ad oggi, Tesi di dottorato, Università della Calabria, Anno Accademico 2011-2012

Alla fine degli anni ’30, con l’inizio della guerra, vengono ridotti i fondi a disposizione delle università. Alla ricerca di nuove opportunità ed incarichi, Marcuse, insieme a molti membri dell’Istituto, si trasferisce da New York a Santa Monica. Pochi anni dopo si sposta di nuovo, questa volta in direzione Washington, assunto dal governo americano su raccomandazione di Neumann per far parte dell’OSS (Office of Strategic Services). L’amministrazione americana ha infatti iniziato a reclutare molti intellettuali e studiosi emigrati dall’Europa per sfruttare le loro conoscenze ed apprendere il più possibile sul nemico. Dal ’41 fino al termine del conflitto, Marcuse lavora per il governo americano come esperto del terzo Reich, stilando diversi rapporti ed analizzando sotto varie prospettive le dinamiche interne al regime nazista.
Nella seconda parte della guerra, quando inizia ad intravedersi la possibilità di una vittoria, egli elabora, insieme a Neumann e Kirchheimer, una guida per il processo di denazificazione, nella quale prova a scoraggiare il governo americano da ogni possibile alleanza con i nazisti. Al termine della guerra, Marcuse si occupa del processo di riorganizzazione della Germania e dell’esame dei gruppi nazionalsocialisti ancora presenti sul territorio tedesco.
Nel ’45, alla morte di Roosevelt, l’ala destra dell’opinione pubblica ed il direttore della FBI J. Edgar Hoover attaccano pesantemente l’OSS ed i suoi membri filomarxisti; il nuovo presidente, Harry Truman, decreta ufficialmente la fine di questo organismo governativo ed accorpa la sezione di “Ricerca ed analisi”, nella quale lavora Marcuse, ad altri dipartimenti.
Durante la guerra, Marcuse si rifugia nell’arte e nella letteratura. Il nazismo e le barbarie del conflitto hanno portato all’estremo gli assunti della razionalità tecnologico-strumentale, e scosso profondamente le fondamenta teoriche della “Teoria critica”. Come sottolineerà molti anni dopo Adorno, Auschwitz e le atrocità burocratizzate del regime nazista hanno messo in crisi la filosofia e più in generale il pensiero occidentale; la trascendenza non appare più in grado di spiegare e salvare la realtà <18. Gli studi di questo periodo di Marcuse si concentrano sull’arte sperimentale, ed in particolar modo sul movimento surrealista francese. In questa corrente egli ritrova la capacità di oltrepassare la realtà effettiva attraverso l’esasperazione del formalismo artistico. Gli studi estetici di questo periodo vengono radunati nel testo del ’45 “Some remarks on Aragon: Art and politics in the totalitarian era”.
Negli anni che seguono la fine del conflitto, Marcuse continua il suo lavoro per il governo americano, spostando le sue attenzioni dal nazismo al comunismo, in particolar modo all’Unione Sovietica ed ai partiti comunisti europei. Nei suoi resoconti egli evidenzia i limiti della propaganda sovietica in Europa e le difficoltà strutturali con cui si confrontano i partiti comunisti europei, ponendosi in netto contrasto con l’idea, ormai molto diffusa, di un fronte comunista forte ed unito pronto a dichiarare guerra agli Usa ed al mondo occidentale. Nel corso delle sue analisi, viene inviato, tra il ’46 e il ’47 per alcuni mesi in Germania, per valutare personalmente la solidità dell’equilibrio tedesco ed osservare più da vicino il sentimento popolare. Marcuse coglie l’opportunità di questo viaggio per recarsi nella Foresta Nera ed incontrare il suo vecchio maestro, Martin Heidegger. Benché Heidegger ammetta il proprio errore politico, la sua posizione risulta ancora ambigua per Marcuse, il quale decide di cessare definitivamente ogni rapporto.
Marcuse lavora per il governo fino all’inizio degli anni ’50, quando, anche in seguito alla morte della moglie, decide di tornare in ambito accademico. Nel ’52 tiene un ciclo di lezioni alla School of Psychiatry di Washington, e subito dopo inizia a collaborare col Russian Institute della Columbia University ed il Russian Research Centre di Harvard. Da queste due esperienze emergeranno altrettante opere: “Eros e civiltà” nel 1955 e “Marxismo sovietico” nel 1958.
“Eros e civiltà” è il contraltare marcusiano alla “Dialettica dell’illuminismo” di Adorno ed Horkheimer <19. Entrambe le opere si confrontano con i tragici fatti del recente passato e con l’imporsi della razionalità tecnologico-strumentale, all’interno della quale, la realtà viene totalmente subordinata a logiche utilitaristiche e di dominio. Nonostante le premesse comuni, i due testi presentano approcci notevolmente differenti <20. Adorno ed Horkheimer identificano in questa nuova e cattiva forma assunta dalla ratio occidentale un destino inevitabile dell’uomo, il quale ha mal realizzato il programma illuminista. Marcuse, al contrario, continua a servirsi degli strumenti della “Teoria critica” per individuare, in questa realtà governata da dinamiche di potere, i mezzi per la liberazione e per il raggiungimento della felicità. In questa prospettiva egli si rivolge a Freud e Nietzsche, i quali hanno, in maniera diversa, fornito le basi per riscattare la ragione umana e pensare una società diversa e non repressiva, capace di accogliere le istanze di Eros.
Il padre della psicanalisi è il principale interlocutore dell’autore, il quale ne rilegge l’opera in chiave politica e filosofica. Le nozioni elaborate da Freud vengono calate nella storia e riutilizzate da Marcuse per descrivere ed al contempo scardinare dall’interno la società repressiva. Attraverso questo percorso egli tenta di rilanciare le istanze rivoluzionarie, mai così soffocate eppure mai così concretamente realizzabili.
Nel 1955 Marcuse assume il ruolo di professore alla Brandeis University. In questi anni si risposa con Inge Neumann, vedova del suo caro amico e collega, ed il suo nome inizia ad essere conosciuto al di là dell’ambito accademico. Nel ’58 pubblica “Marxismo sovietico”, monografia sul comunismo russo nella quale vengono ordinate e sistematizzate le ricerche compiute negli ultimi quindici anni. “Marxismo sovietico” è inscrivibile tra le critiche da sinistra all’URSS ed alla gestione staliniana. In questo testo l’autore analizza approfonditamente la struttura politica e sociale dell’Unione sovietica, rilevando le criticità ed irrazionalità che ne minano alla base il progetto socialista. Il marxismo sovietico rischia di fallire perché non si pone più come negazione definita del mondo capitalista, ma al contrario si sta assimilando sempre di più al liberalismo americano. In sistemi apparentemente così diversi si cela, secondo Marcuse, lo stesso contenuto, la stessa sostanza socio-politica fondata sullo sviluppo industriale su larga scala e sulla repressione degli individui. L’URSS, piuttosto che lottare con gli Stati Uniti sullo stesso terreno, piuttosto che mirare alla costituzione di una società del benessere, dovrebbe rappresentare un’alternativa qualitativamente differente. Marcuse si distacca dalla logica dicotomica della guerra fredda, non si concentra sulle differenze tra i due sistemi economico-politici, ma al contrario li inquadra all’interno della stessa logica, ne evidenzia la co-appartenenza al medesimo orizzonte storico-razionale. Al netto delle evidenti diversità, Marcuse sottolinea la sottomissione alla medesima logica del dominio e la perpetrazione di politiche oppressive.
[NOTE]
18 “L’impressione che, dopo Auschwitz, si ribella ad ogni affermazione di positività dell’esistenza come una consolazione a poco prezzo, ingiustizia nei confronti delle vittime, la resistenza contro la possibilità di spremere dal loro destino un qualche senso per quanto esiguo, ha un suo momento oggettivo dopo eventi che ridicolizzano la costruzione di un senso dell’immanenza, irraggiato dalla trascendenza posta affermativamente”. Adorno T., Dialettica negativa, Einaudi, Torino, 1970, p. 326
19 Marcuse avrebbe dovuto inizialmente contribuire alla stesura di questo testo.
20 Questa rottura, sia teorica che personale, specialmente tra Adorno e Marcuse, impedirà a quest’ultimo di pubblicare Eros e civiltà nell’edizione dell’Istituto.
Niccolò Pardini, Marcuse interprete di Hegel, Tesi di Laurea, Università degli Studi di Milano, Anno Accademico 2019-2020

Pubblicato in Senza categoria | Contrassegnato , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , | Lascia un commento

La morte di Dante Di Nanni, eroe gappista

Un’analisi a parte merita il capitolo sesto, dal titolo “Morte e trasfigurazione”, dedicato alla morte [avvenuta il 18 maggio 1944] di Dante Di Nanni, giovane gappista torinese, percepito come un vero e proprio eroe della Resistenza dalla memoria cittadina.
Innanzi tutto bisogna notare come queste pagine siano le uniche in cui si parla in terza persona. Qui Giovanni Pesce non si pone più nell’ottica dell’io testimone, bensì in quella del narratore onnisciente, in grado di conoscere gli intimi pensieri del compagno Di Nanni e persino quelli della madre di questi.
Il capitolo prende avvio dall’ordine ricevuto di far saltare la radio che disturba le frequenze di Radio Londra. È un’operazione che “Ivaldi” (il nome di battaglia che Pesce aveva a Torino) fin da subito percepisce come complessa in quanto presenta dei problemi per la ritirata dopo l’azione, ma alla fine concluderà così: «Ci ritireremo risalendo lo Stura: se rischio di essere scoperti c’è, perché saranno in allarme, è un rischio che dobbiamo correre. D’altra parte non vedo altre vie d’uscita». <53
Il capitolo è costellato da continue anticipazioni. In un punto del capitolo Pesce narra l’avvicinamento all’obiettivo. Nel paragrafo successivo invece ci troviamo già dopo il compimento dell’azione (che ci verrà poi narrata in un successivo paragrafo) e “Ivaldi” è vicino al letto sporco del sangue delle ferite di Dante Di Nanni. <54 Da qui prendono avvio alcune pagine altamente drammatiche in cui Di Nanni, in un dialogo con Pesce, vede avvicinarsi la morte e capisce che non potrà vedere la fine della guerra. In lui si susseguono sensazioni di paura, rabbia, sofferenza e orgoglio. Il loro discorso riprenderà poi qualche pagina dopo assumendo la forma di un dialogo intimo, amichevole, affettuoso, in cui emerge tutto l’eroismo dei personaggi. L’intensità dello scambio di parole è molto forte e ne escono fuori due eroi pieni di umanità, con le loro paure e insicurezze.
Le ultime parole di Di Nanni sono domande tese a dare un senso a quanto compiuto fino a quel momento. Egli vuole quasi essere rassicurato sulla grandezza del loro partito e sul fatto che per il dopoguerra esso punti sui giovani. Domande che rispecchiano una forte incertezza per ciò che avverrà quando tutto sarà finito.
Dal momento in cui Pesce se ne va dicendo che presto arriveranno i soccorsi, prende avvio un vero e proprio racconto epico che ha come protagonista Dante di Nanni. Egli è rimasto solo, ha voluto accanto al letto due mitra, uno sten e il sacco degli esplosivi con le micce a strappo già pronte e infilate nei detonatori. Sente arrivare i tedeschi che presto aumentano di numero, fanno sgomberare l’edificio e lo circondano da ogni lato.
Le pagine che seguono vedono l’estrema supremazia di Di Nanni rispetto al nemico, in una sorta di “uno contro tutti”. Egli riesce ad uccidere un numero altissimo di soldati tedeschi (in “Soldati senza uniforme” Pesce li quantifica in più di trenta) <55 fino a quando non gli rimane più nessun’arma a disposizione e decide di suicidarsi.
Così Pesce descrive il momento della morte del compagno: “Adesso non c’è più niente da fare: allora Di Nanni afferra le sbarre della ringhiera e con uno sforzo disperato si leva in piedi aspettando la raffica. Gli spari invece cessano sul tetto, nella strada, dalle finestre delle case, si vedono apparire uno alla volta fascisti e tedeschi. Guardano il gappista che li aveva decimati e messi in fuga. Incerti e sconcertati, guardano il ragazzo coperto di sangue che li ha battuti. E non sparano. È in quell’attimo che Di Nanni si appoggia in avanti, premendo il ventre alla ringhiera e saluta col pugno alzato. Poi si getta di schianto con le braccia aperte nella strada stretta, piena di silenzio”. <56
Da notare la differenza con cui lo stesso episodio si conclude nelle prime memorie scritte da Giovanni Pesce, “Soldati senza uniforme”: “I vigili si erano ritirati mentre i tedeschi, sempre più furibondi, facevano arrivare sul posto i due carri armati e riprendevano a sparare all’impazzata. Così, il 18 marzo 1944, Dante Di Nanni moriva da eroe: la popolazione del rione, attirata nella strada dalla battaglia, salutava con commosso silenzio la morte di questo glorioso combattente”. <57
Pare quindi non esservi traccia del coraggioso suicidio di Di Nanni. Questo elemento, insieme ad altri, ha portato lo storico Nicola Adduci a svolgere alcune ricerche, ancora inedite, circa le circostanze della morte del giovane gappista. Non entreremo qui nel merito dei dati da lui rilevati, in quanto in questa sede non ci interessa fare una ricostruzione storica degli eventi, bensì osservare come a distanza di anni, gli stessi ricordi, le stesse memorie, possano subire variazioni, anche in base alle nuove circostanze e alle scelte che si operano.
Quanto riportato sopra costituisce un esempio del rischio di accostarsi ai testi di memoria attribuendo loro la stessa validità di una fonte storica in senso tradizionale.
Come già osservato precedentemente, il ruolo della letteratura non è quello di fornire una precisa ricostruzione storica degli eventi, bensì di fornirci altri elementi, donandoci il senso complessivo dell’esperienza.
L’intento di Pesce, come quello di molti altri memorialisti, è pedagogico. È lui stesso a dircelo: ” “Senza Tregua” ha una morale profondissima valida oggi come ieri. È un insegnamento che gli uomini, i giovani che furono impegnati in drammatiche battaglie, hanno consegnato ad altri uomini, ad altri giovani, oggi impegnato nel lavoro o nello studio, perché sappiano lottare per le libere istituzioni, la giustizia, la libertà, la democrazia”. <58
Quindi si tratta di raccontare affinché le nuove generazioni sappiano ciò che è stato, perché non si ripeta, nella speranza che, con la scomparsa di coloro che hanno combattuto per la libertà della gente, ci sia qualcuno disposto a “raccogliere il testimone”.
[NOTE]
53 G. Pesce, Senza tregua, cit., p. 113.
54 Ivi, p. 117.
55 G. Pesce, Soldati senza uniforme, Roma, Edizioni di cultura sociale 1950, p. 100.
56 G. Pesce, Senza tregua, cit., p. 145.
57 G. Pesce, Soldati senza uniforme, cit., p. 101.
58 G. Pesce, Senza tregua, cit., p. 9.
Valentine Braconcini, La memorialistica della Resistenza attraverso gli scritti di Giovanni Pesce, Tesi di Laurea, Università degli Studi di Torino, Anno Accademico 2007-2008

Pubblicato in Senza categoria | Contrassegnato , , , , , , , , , , | Lascia un commento

Democrazia e libertà nel pensiero di Luciano Canfora

Nell’introdurre il concetto di democrazia e di libertà ho pensato di far riferimento agli studi di Luciano Canfora, uno degli storici più importanti nell’attuale scenario nazionale ed internazionale.
Nel libro “La democrazia, storia di un’ideologia”, la sua riflessione parte dal constatare che nell’opinione comune la democrazia sia un’invenzione greca ma, come testimonia la bozza del preambolo della Costituzione europea diffusa il 28 maggio 2003, questa è una nozione approssimativa e usata ideologicamente. In esso è infatti presa in modo distorto una citazione tratta dall’epitaffio che Tucidide attribuisce a Pericle. Così scrive il nostro storico: «Nel preambolo della Costituzione europea le parole di Pericle tucidideo si presentano in questa forma: “La nostra costituzione è chiamata democrazia perché il potere è nelle mani non di una minoranza ma del popolo intero”. È una falsificazione di quello che Tucidide fa dire a Pericle. E non è per nulla trascurabile cercare di capire si sia fatto ricorso ad una tale “bassezza” filologica. Dice Pericle, nel discorso assai impegnativo che Tucidide gli attribuisce: “la parola che adoperiamo per definire il nostro sistema politico [ovviamente è modernistico e sbagliato rendere la parola politèia con “costituzione”] è democrazia per il fatto che, nell’amministrazione [la parola adoperata è appunto oikèin], esso si qualifica non rispetto ai pochi ma rispetto la maggioranza [dunque non centra il “potere”, e men che meno il “popolo intero”]”. Pericle prosegue: “Però nelle controversie private attribuiamo a ciascun ugual peso e comunque nella nostra vita pubblica vige la libertà”. Pericle fu il maggior leader politico dell’Atene della seconda metà del V secolo a.C. Non ha conseguito successi militari, semmai ha collezionato sconfitte in politica estera, ad esempio nella disastrosa spedizione in Egitto, dove Atene perse una flotta immensa. Però fu talmente abile a conseguire il consenso, da riuscire a guidare quasi ininterrottamente per un trentennio (462-430) la città di Atene retta a “democrazia”. Democrazia era il termine con cui gli avversari del governo “popolare” definivano tale governo, intendendo metterne in luce proprio il carattere violento (kràtos indica per l’appunto la forza nel suo violento esplicarsi). Per gli avversari del sistema politico ruotante intorno all’assemblea popolare, democrazia era dunque un sistema liberticida. Ecco perché Pericle, nel discorso ufficiale e solenne che Tucidide gli attribuisce, ridimensiona la portata del termine, ne prende le distanze, ben sapendo peraltro che non è parola gradita alla parte popolare, la quale usa senz’altro popolo dèmos) per indicare il sistema in cui si riconosce. Prende le distanze il Pericle Tucidideo, e dice: «si usa democrazia per definire il nostro sistema politico semplicemente perché siamo soliti far capo al criterio della “maggioranza”, nondimeno da noi c’è libertà» <18. Poco dopo, nell’epitaffio, Tucidide scrive riguardo a Pericle che sotto il suo governo ad Atene ci fu «a parole la democrazia, ma di fatto il governo del pròtos anèr», che Canfora traduce con “principato”, avvicinando molto le figure del tiranno Pisistrato a Pericle, come notò Hobbes «il quale esordì con una traduzione di Tucidide (1628) decisiva per la sua evoluzione intellettuale, e giunse alla conclusione che Tucidide avesse collocato sia Pisistrato sia Pericle nel novero dei “monarchi”, e che, pertanto, Tucidide stesso dovesse considerarsi come uno dei maggiori teorici e assertori della monarchia. Faceva velo a Hobbes la sua visione delle forme politico istituzionali. La sua diagnosi è inesatta ma sommamente rilevante nello scardinare il Tucidide oleografico dei mediocri interpreti che inventano un Tucidide cantore della democrazia in quanto autore dell’epitafio pericleo» <19.
Quindi Canfora mette in risalto come in Pericle la convinzione (e la prassi) era che la democrazia fosse limitata alla maggioranza dei potenti e dei ricchi della città, i quali avevano il lusso di potersi armare in proprio e fare le guerre. Così la democrazia di Pericle era quella dei pari dell’aristocrazia, mentre negli affari privati la libertà veniva garantita a tutti i cittadini. Il potere politico della città era solo dell’oligarchia. La libertà e la facoltà di governare è assicurata solo al gruppo egemone. Il resto del popolo non godeva di tale potere. Le donne ne erano escluse e i prigionieri venivano resi schiavi e la condizione dei non possidenti era molto vicina a quella dei non liberi.
Scrive Canfora: «Indipendenza (sovranità piena) e democrazia vanno insieme. Ciò per varie ragioni, ma soprattutto per una essenziale, che ci porta alla radice stessa dell’antica nozione di cittadinanza e di democrazia in quanto comunità di uomini in armi. Il punto di partenza è infatti. Chi ha la cittadinanza? Chi sono i “tutti” la cui libertà mette in essere la democrazia? La seconda domanda è: anche quando tutti i liberi hanno la cittadinanza, come la esercitano i socialmente più deboli? Questo secondo e molto controverso problema ne implica altri ancora. La questione degli strumenti necessari per poter esercitare effettivamente la cittadinanza (pur in assenza di adeguate risorse intellettuali e materiali), la questione della validità del principio di “maggioranza”, il dilemma tante volte emergente nella concreta prassi politica se debba considerarsi prevalente la “volontà del popolo” o la “legge”, e così via.
È nel fuoco di questi problemi che nasce la nozione – e la parola – demokratìa, a noi nota, sin dalle sue prime attestazioni, come parola dello “scontro”, come termine di parte, coniato dai ceti elevati ad indicare lo “strapotere” (kràtos) dei non possidenti (dèmos) quando vige, appunto, la “democrazia”. […] Se consideriamo l’esempio più conosciuto, e più caratteristico, cioè Atene, constatiamo che, in epoca periclea, a possedere questo bene inestimabile (la cittadinanza) sono relativamente in pochi: i maschi adulti (in età militare), purché figli di padre e di madre ateniese, e liberi dalla nascita. È questa una limitazione molto forte, se si considera che, anche secondo i calcoli più prudenti, il rapporto liberi/schiavi era di uno a quattro. C’è poi da considerare che non sarà stato del tutto trascurabile il numero dei nati da un solo genitore “purosangue” in una città così dedita ai commerci ed ai contatti frequenti col mondo esterno. […] Almeno fino all’età di Solone (VI secolo a.C.), la pienezza dei diritti politici – che costituisce il contenuto stesso della cittadinanza – non era concessa ai nullatenenti. […] La visione della cittadinanza, dominante in epoca classica, è racchiusa nell’identificazione cittadino/guerriero. È cittadino, fa parte a pieno titolo della comunità partecipando alle assemblee decisionali, chi è in grado di esercitare la principale funzione dei maschi liberi, la funzione cui tutta la paidèia li prepara, cioè la guerra. Al lavoro provvedono gli schiavi e, in parte, le donne. Risulta dunque evidente perché una comunità, pur “autonoma” ma immersa in un grande impero che la sovrasta e di fatto la dirige, pratichi una democrazia decurtata. Poiché per lungo tempo essere guerriero implicava la disponibilità dei mezzi per provvedere all’armatura, la nozione cittadino/guerriero si identificò con quella di
possidente» <20. Considerando poi le due comunità, quella di Atene e quella di Sparta, Canfora nota come Isocrate coglieva un elemento sostanziale, che cioè in entrambe la sede della sovranità è la stessa: «In entrambe le comunità, e questo è un tratto distintivo di tutto il mondo antico finché non entrerà in crisi la forma stessa della città-Stato, il corpo decisionale è il corpo combattente. Perciò la cittadinanza è un bene prezioso, che si concede con parsimonia, e che esige ed implica requisiti ben fermi ed escludenti, miranti a delimitare al massimo il numero dei beneficiari. La divaricazione risiede semmai nel modo in cui le due comunità hanno segnato il confine tra libertà e non libertà. In Atene i liberi hanno ridotto a non-persone i non liberi, e dopo Solone – che ha recuperato alla libertà ceti immiseriti che andavano scivolando nella schiavitù per debiti – si è aperto un baratro rimasto incolmabile, tra libertà e schiavitù. […] In Sparta la stratificazione sociale ha coinciso con la stratificazione castale ed etnica tra Dori dominanti e popolazioni sottomesse ridotte dai guerrieri-dominatori a differenti gradi e modi di dipendenza. Ma gli Spartani “purosangue”, o Spartiati, così come gli Ateniesi “purosangue”, erano “liberi e uguali”» <21.
Proprio la dicotomia libertà-schiavitù, e la loro relazione con la democrazia, sarà al centro delle ulteriori riflessioni in cui Canfora mostra come democrazia e libertà si siano trovate in conflitto nel mondo greco e tanto più nel mondo attuale in cui il trionfo della libertà individuale corrisponde ad un grave deperimento dei valori democratici. Con ampi riferimenti documentali segue le varie fasi dello sviluppo storico della civiltà europea e di quella italiana in particolare, seguendo le rivoluzioni, francese, inglese, americana, avendo radicato il presupposto del valore della Rivoluzione del 1789 come evento matrice di tutta la successiva storia d’Europa verificando quello che acutamente esprime in un altro testo: «Tutte le aporie che sorgono dai fallimentari tentativi di dare una definizione peculiare della “democrazia”, capace di adattarsi a quell’inquietante fenomeno che è la “democrazia realizzata”, nascono dal fatto che non volentieri si prende atto del dato sostanziale: che cioè anche le cosiddette democrazie si fondano sul predominio di élites. È toccato a Raymond Aron, noto difensore del “liberalismo” contro il “marxismo” più o meno immaginario dell’intellighenzia francese degli anni Sessanta e Settanta, di mettere il dito sul fatto capitale. In un saggio intitolato non a caso “Del carattere oligarchico dei regimi costituzionali-pluralistici”, egli osserva acutamente, e pur tuttavia in un contesto mirante a connotare i regimi “costituzionali-pluralistici” come i migliori possibili: “Non è possibile concepire un regime che, in certo senso, non sia oligarchico”. E lo spiega osservando: “l’essenza stessa della politica è che le decisioni vengano prese non dalla collettività, ma per la collettività”» <22.
Canfora analizza anche l’attuale attacco alla democrazia attuato con lo svuotamento dei sistemi costituzionali, elettorali e organizzativo-amministrativi, via via registrati nel corso dell’evoluzione storica, come nel caso della Costituzione repubblicana italiana, nata dalla Resistenza antifascista, dove i sacrosanti principi della giustizia sociale sono rimasti lettera morta. Il tentativo della legge Scelba, la famosa legge truffa, del 1953 – il premio di maggioranza, l’attuale bipolarismo italiano, nato con la morte del sistema elettorale proporzionale e l’entrata in vigore del maggioritario, e i candidati scelti direttamente dai partiti sono esempi di un lento e progressivo esautoramento della democrazia.
Canfora scrive: «Torna dunque, definitivamente, in auge in occidente il sistema “misto”, del quale i sistemi elettorali maggioritari sono lo strumento principe. Più che la limitazione esplicita dei diritti
degli altri, che si da in un sistema misto di tipo classico (suffragio ristretto), si preferisce la limitazione indiretta (leggi elettorali maggioritarie). Questa maggiore souplesse si spiega con varie ragioni: il principio democratico (“un uomo un voto”) non è più archiviabile in modo diretto; inoltre appare preferibile una situazione in cui anche chi viene deprivato del proprio peso politico venga portato a pensare – magari contro i propri interessi – che la “governabilità” è un valore per tutti (quantunque essa di fatto consiste nella più spedita gestione del potere da parte dei ceti più forti). Peraltro una tale souplesse, o anche “eleganza” di comportamenti, è possibile, perché comunque, per intanto, i poteri decisivi si sono sottratti al predominio degli organi elettivi, e sono confortati dal “plebiscito dei mercati”, ben più che da quello dei voti. Il potere è altrove e la creazione di organismi sovranazionali “tecnici”, a carattere europeo (i quali fisicamente stanno “altrove”), ha contribuito molto alla dislocazione fuori del controllo dei parlamenti nazionali delle decisioni fondamentali per l’economia» <23. Ad esempio per quel che riguarda lo stato sociale (pensioni), quel che non riescono a fare i governi in materia di riduzione per un chiaro motivo elettorale, possono farlo questi poteri sovranazionali, oggi denominati “trojka”.
Continua il nostro storico: «a questo punto entrano in scena i remoti, invisibili, “tecnici” delle istituzioni “europee”. Gli “economisti” in servizio presso tali istituzioni fanno sapere che il Documento di programmazione economica del governo italiano “non corrisponde ai parametri di Maastricht” proprio perché non sufficientemente drastico in materia di politica sociale (pensioni). Una volta costruita la gabbia di acciaio che sta “altrove”, la battaglia è persa, è solo questione di tempo e di gradualità: il ricatto dei parametri è perfetto, e nessuna organizzazione di lavoratori è in grado di andare a combattere direttamente contro gli appartati e irraggiungibili “sacerdoti” di quei parametri. In un tale quadro il giocattolo elettorale, purché “depurato” e creatore automatico di parlamenti a prevalenza moderata in entrambi gli schieramenti, resta in funzione. E l’abrogazione soft del suffragio universale viene comunque compensata dalla graziosa concessione di continuare a farsi ciclicamente legittimare attraverso tornate elettorali.
Insomma, nell’odierno funzionamento delle “democrazie” parlamentari il sistema misto si afferma su due piani: come limitazione dell’efficacia effettiva degli organismi elettivi (che finiscono per l’assolvere ad una funzione di contorno o di ratifica rispetto a poteri di tipo oligarchico: soprattutto nel campo dell’economia e della finanza), e come ritocco tecnico (leggi elettorali maggioritarie: si teme infatti che il proporzionalismo puro inceppi il meccanismo). L’eliminazione del sistema proporzionale fu la prima preoccupazione di Mussolini appena nominato presidente del Consiglio» <24. E ancora: «Lo svuotamento delle “democrazie progressive”, cioè del contenuto concreto dell’antifascismo tradotto in norme costituzionali, è avvenuto in due direzioni convergenti: sul piano istituzionale del rafforzamento dell’esecutivo e con leggi elettorali che spostano l’elettorato verso il centro e selezionano con criterio censitario il personale politico, producendo la definitiva sconfitta del suffragio universale; sul piano sostanziale con l’accentuarsi della “presa” delle oligarchie che contano sull’intera società (impoverimento dell’efficacia legislativa dei parlamenti, accresciuto potere degli organismi tecnici e finanziari, diffusione capillare della cultura della ricchezza, o meglio del mito e della idolatria della ricchezza attraverso un sistema mediatico totalmente pervasivo» <25.
Per concludere questa breve introduzione al rapporto che storicamente si è dipanato, fra democrazia e libertà, mi sembra importante riportare la lucida e spietata conclusione che Luciano Canfora ci lascia, immettendo anche un barlume di speranza: «Quella che invece, alla fine – o meglio allo statuto attuale delle cose – ha avuto la meglio è la “libertà”. Essa sta sconfiggendo la democrazia. La libertà beninteso non di tutti, ma quella di coloro che, nella gara, riescono più “forti” (nazioni, regioni, individui): la libertà rivendicata da Benjamin Constant con il significativo apologo della “ricchezza” che è “più forte dei governi”; o forse anche di quella per la quale ritengono di battersi gli adepti dell’associazione neonazista newyorkese dei «Cavalieri della libertà». Né potrebbe essere altrimenti, perché la libertà ha questo di inquietante, che o è totale – in tutti i campi, ivi compreso quello della condotta individuale – o non è; ed ogni vincolo in favore dei meno «forti» sarebbe appunto, limitazione della libertà degli altri. È dunque in questo senso rispondente al vero la diagnosi leopardiana sul nesso indissolubile, ineludibile, tra libertà e schiavitù. Leopardi crede di ricavare questa sua intuizione dagli scritti di Linguet e di Rousseau: ma è in realtà quello un esito, un apice della sua filosofia. Linguet e Rousseau dicono meno. È un punto d’approdo, inverato compiutamente soltanto nel nostro presente, dopo il fallimento delle linee d’azione e degli esperimenti originati da Marx. La schiavitù è, beninteso, geograficamente distribuita e sapientemente dispersa e mediaticamente occultata» <26. Una schiavitù – annota il Leopardi nello Zibaldone – che, lontana dall’essere stata debellata, fonda la libertà dei liberi e ne è principio.
Conclude Canfora: «Per ritornare dunque al punto da cui siamo partiti i bravi costituenti di Strasburgo, i quali si dedicano all’esercizio di scrittura di una “costituzione europea”, una sorta di mansionario per un condominio di privilegiati del mondo, mentre pensavano, tirando in ballo il Pericle dell’epitafio, di compiere non più che un esercizio retorico, hanno invece, senza volerlo, visto giusto. Quel Pericle infatti adopera con molto disagio la parola democrazia e punta tutto sul valore della libertà. Hanno fatto ricorso – senza saperlo – al testo più nobile che si potesse utilizzare per dire non già quello che doveva servire come retorica edificante, bensì quello che effettivamente si sarebbe dovuto dire. Che cioè ha vinto la libertà – nel mondo ricco – con tutte le terribili conseguenze che ciò comporta e comporterà per gli altri. La democrazia è rinviata ad altre epoche, e sarà pensata, daccapo, da altri
uomini. Forse non più europei» <27.
[NOTE]
18 L. Canfora, La democrazia, storia di un’ideologia, Laterza, Roma-Bari, 2004, pp.12-13
19 Ivi, pp. 14-15
20 Ivi, pp. 33-34
21 Ivi, pp. 36-37
22 L. Canfora, Critica della retorica democratica, Laterza, Roma-Bari, 2002
23 Ivi, pp.317-318
24 Ivi, pp. 318-319
25 Ivi, p. 324
26 Ivi, pp. 365-366
27 Ivi, pp. 366-367
Claudio Pettinotti, La democrazia attraverso i diritti nel pensiero di Luigi Ferrajoli, Tesi di laurea, Alma Mater Studiorum Università di Bologna, Anno accademico 2014-2015

Pubblicato in Senza categoria | Contrassegnato , , , , , , , , , | Lascia un commento

L’elezione di Gronchi non era ben vista dagli americani

Il biennio 1955-56 è comunemente considerato come un anno di svolta nel contesto politico internazionale: causò grandi capovolgimenti in ogni scenario inserito nella logica della guerra fredda. In Italia, il progressivo esaurirsi della formula di governo centrista, in concomitanza con la distensione internazionale e poi della rivoluzione ungherese, faceva già prevedere un imminente scivolamento a sinistra. Questa possibilità destava forti preoccupazioni in seno ad ampi strati dell’opinione pubblica, in particolare negli ambienti industriali. Nel maggio del 1955 Giovanni Gronchi, contro il candidato “di bandiera” della Dc Cesare Merzagora, venne eletto Presidente della Repubblica, anche grazie al sostegno di socialisti e comunisti <37, nonché ai voti del Msi. L’elezione di Gronchi non era ben vista dagli americani. Nel luglio dello stesso anno, Fernando Tambroni venne nominato ministro degli interni del primo governo presieduto da Mario Segni nel luglio 1955, incarico che tenne fino al febbraio 1960, quando venne chiamato egli stesso a formare un governo che, come noto, verrà spento sul nascere a causa dell’appoggio del Msi, e questo causerà la sua fine politica. Durante i cinque anni in cui tenne il ministero, egli fece un ampio uso della struttura dell’Uar [servizi segreti della polizia] per aumentare il suo potere.
Tra i giri di nomine del ’55, infine, durante gli ultimi giorni dell’anno, il generale De Lorenzo prese ufficialmente la guida del Sifar. De Lorenzo e Tambroni, rispettivamente uno a capo del Sifar e l’altro dell’Uar, accrebbero in parallelo le loro rispettive influenze in seno alle istituzioni dello stato usufruendo al massimo delle potenzialità e i mezzi delle strutture che comandavano, entrando anche in concorrenza l’uno con l’altro.
Questi sconvolgimenti ebbero una diretta risonanza nelle dinamiche di governo. Dal ‘56, infatti, data per conclusa la spinta propulsiva della formula centrista, si cercò la possibilità di un nuovo equilibrio di governo a destra (ricerca che si concluse con il tentativo di governo di Tambroni nel 1960, segnandone al contempo l’apice e il fallimento), opzione molto caldeggiata dall’intelligence americana. In una relazione del 1954 sulla situazione politica italiana pubblicata dal Center of International Studies dell’Università del Massachussets, troviamo una puntuale predizione (e auspicio) della ricerca a destra, preso atto della “scomparsa della stabilità politica”. Nel valutare una possibile (ma destinata, secondo l’autore, al fallimento) apertura al PSI: “Questo non significa che l’Italia diventerebbe comunista. Al contrario, una soluzione può essere cercata a destra. {…} In queste circostanze un ritorno al fascismo, pur possibile, non appare probabile. Appare invece più probabile la graduale apparizione di un regime clericale, moderato, ma essenzialmente autoritario, del tipo portoghese” <38.
E ancora, è interessante notare come, alla domanda se gli Stati Uniti abbiano degli interessi perché in Italia perduri uno stato democratico: “[…] se è chiaro che gli Stati Uniti hanno bisogno dell’Italia nella guerra “fredda” […] non ne consegue che siano ugualmente interessati al sopravvivere della democrazia in Italia. […] Anche una più violenta sterzata a destra, con o senza guerra civile, si concluderebbe probabilmente con l’Italia dalla parte americana”.
In Italia ci fu l’ala destra della Dc, il cosiddetto “partito cattolico”, a interpretare tali ambizioni nella seconda metà degli anni Cinquanta. Lo storico Pietro Neglie riassume così la composizione del fronte conservatore-reazionario del partito: “Il Msi era potenzialmente partner del partito di maggioranza e punto di raccordo di un variegato fronte conservatore-reazionario, il quale, a fronte dell’inaffidabilità della Dc, acquistava peso e spessore e guardava con attenzione “ad un nuovo soggetto politico cattolico che costruisse attorno a sé uno schieramento di forze comprendente l’estrema destra, in grado di assicurare al paese una solida maggioranza governativa e di attuare, al contempo, una riforma istituzionale di tipo presidenzialista. Parliamo di quella destra democristiana che con il sostegno dei Comitati Civici, della Chiesa (il cardinal Siri), della politica (il ministro Tambroni), delle riviste “Ordine Civile” e “Lo Stato” di Baget Bozzo, mirava a provocare una scissione all’interno della Dc”. <39
Fu proprio con Fernando Tambroni come presidente del consiglio, nei primi mesi del 1960, che l’Italia tentò questa via con il varo di un governo di destra e a vocazione presidenzialista, grazie ai voti determinanti del MSI.
Ma ciò che più ci interessa ai fini del presente studio, è il potenziamento che il Tambroni operò sugli apparati di intelligence del corpo di polizia durante la sua attività da ministro e l’uso personalistico e ricattatorio che fece delle informazioni ricavate grazie a questi servizi. Probabilmente egli arrivò al vertice del governo proprio grazie all’influenza negli anni precedenti passati al Ministero dell’Interno.
[NOTE]
37 M. Gotor, l’Italia nel Novecento, Einaudi (2019), pg. 187
38 Fondo Malagodi, b. 35, fasc. 69, Center of International Studies del Massachussets Insitute of Technology, La situazione politica italiana nella primavera del 1954, testo a firma di Vincent Barnett. Citato in Davide Conti, L’Italia di Piazza Fontana, Feltrinelli (2019).
39 Pietro Neglie, Il pericolo rosso, Luni Editrice (2017) pg. 282
Claudio Molinari, I servizi segreti in Italia verso la strategia della tensione (1948-1969), Tesi di laurea, Università degli Studi di Trieste, Anno Accademico 2020-2021

Pubblicato in Senza categoria | Contrassegnato , , , , , , , , , , , , , , | Lascia un commento

Si incontravano gruppi musicali di quartiere

Figli del ’77: la transizione dell’Autonomia bolognese negli anni Ottanta.
«Alla fine degli anni ’70 il movimento era completamente scompaginato perché molti erano stati arrestati, altri si erano dati alla vita privata o alle droghe, eccetera eccetera. Per cui non c’erano più leader di primo piano, mancavano quelli. Nacquero delle formazioni che derivavano da quel po’ che era rimasto del movimento del ’77: erano rimasti dei collettivi sparsi, spesso usciti da LC. Poi c’erano gli autonomi veri e propri, quelli di Rosso, ma già si stavano in qualche modo ritirando. Praticamente ci fu quasi una reinvenzione di questa area da parte di persone che prima non vi appartenevano. I due [soggetti] maggiori furono il COCOBO e il CPT. Erano costituiti da gente che veniva da Lotta Continua, soprattutto il COCOBO: il CPT era un miscuglio di esperienze con dei leader che nascevano in quel momento, che negli anni ’70 non avevano avuto un ruolo direttivo, per questioni anche anagrafiche. Si trattava di giovani, perlopiù studenti, che in precedenza erano stati ai margini, pur avendo magari partecipato al ’77. In tantissimi casi si trattava di gente che veniva dal Sud e arrivava a Bologna per la prima volta» <134.
Seguendo la ricostruzione di Valerio Evangelisti <135, la transizione che l’autonomia bolognese affrontò a cavallo tra i due decenni appare così radicale da porre in termini problematici il rapporto di continuità tra i soggetti definiti autonomi negli anni ’70 e negli ’80. Se i neonati movimenti non si ritraevano dal definirsi eredi diretti delle esperienze precedenti, purtuttavia si trovarono costretti ad accettare l’irreversibile mutamento delle condizioni sociopolitiche in Italia.
Allo stesso tempo evento traumatico e punto di non ritorno per l’autonomia, il 7 aprile 1979 non solo ne mutò irrimediabilmente la morfologia, ma rischiò di monopolizzare la discussione e l’azione politica negli anni immediatamente successivi: nei primi anni ’80, la maggior parte dei dibattiti politici in seno ai “nuovi autonomi” bolognesi verteva attorno al problema-carcere e al dilemma dell’amnistia.
Da via Avesella a Piazza Verdi: il Collettivo Comunista di Bologna <136.
Legato al gruppo di via dei Volsci e all’autonomia storica padovana <137, il Collettivo Comunista di Bologna risulta essere uno dei soggetti più documentati all’interno dei fondi dell’Archivio “Marco Pezzi”: merito di Franco Fiore, all’epoca militante nel movimento, il quale – all’interno del fondo eponimo – ha provveduto a raccogliere i documenti pubblicati dal 1984 al 1987. La stragrande maggioranza parte dei documenti prodotti dal COCOBO presenta la dicitura “c.i.p. (acronimo per “ciclostilato in proprio) via Avesella 5/b”, in quanto il ciclostile utilizzato si trovava nell’ex-sede del gruppo politico Il manifesto e di Lotta Continua. Molto più di una semplice sede per ciclostilare, il numero 5/b138 permane nella storia dell’antagonismo bolognese come uno dei suoi luoghi più simbolici: anche dopo sua riconversione in osteria <139, ospitò le riunioni organizzative del Collettivo Comunista di Bologna e del Circolo “Carlos Fonseca”, gruppo di solidarietà con il Nicaragua sandinista. Non solo: «A parte i collettivi strettamente politici, vi si ritrovavano il comitato di base dei tranvieri […]; vi operava la mattina un ambulatorio autogestito per eroinomani, curati con somministrazioni di morfina […]; si incontravano gruppi musicali di quartiere; si radunava talora l’Unione Studenti Africani; confluiva occasionalmente la redazione de “Il fondo del barile”, un giornaletto scritto in larga misura da operai della Ducati» <140.
Come affermato precedentemente, tutti i soggetti attivi a sinistra del PCI – autonomi in primis – rivendicarono, nel corso delle mobilitazioni negli anni Ottanta, l’eredità politica lasciata dai cicli di lotte negli anni Settanta. Eppure, gli stessi movimenti si rivelavano consci dei profondi mutamenti sociali, nonché dell’esigenza di adeguare la speculazione politica alle nuove coordinate della società italiana. Le tracce di tale consapevolezza si rintracciano – per quel che concerne il collettivo preso in esame – all’interno di un manifesto datato al 1984 <141, nel quale vengono riportate numerose riflessioni sulla fase politica corrente e sulle opportunità della protesta: particolarmente rilevante risulta il punto 4 – intitolato “Chiusura definitiva di un ciclo” – laddove, vista la necessità di tracciare un bilancio autocritico «di questi 15 anni di scontro di classe nel nostro paese» <142, si prende atto dell’inattuabilità pratica delle forme di lotta precedenti.
Così, al punto 4: «Il punto di partenza è la constatazione tutta politica della chiusura definitiva di un ciclo di lotte, di forme organizzative, di cultura militante, che ha avuto il suo culmine nell’impianto teorico e nella pratica concreta del combattentismo, così come si è storicamente configurato in Italia» <143.
Va da sé che accettare la fine di un ciclo rilevante di lotte (il più importante nella storia dell’Autonomia) non sottintende l’accettazione supina della pacificazione forzata («lasciamo agli apologeti del capitale la lurida illusione di una realtà sociale sinistramente pacificata» <144), quanto invece «il superamento di ogni residuo riferimento alla tradizione terzinternazionalista e socialista» <145. La teorizzazione e la realizzazione di un progetto politico realistico, secondo gli autonomi, devono fare i conti con le caratteristiche di una nuova composizione sociale, i cui elementi potenzialmente conflittuali sono rappresentati dalla diffusione di precariato e disoccupazione, dalla riconversione industriale in favore delle nuove tecnologie e dallo sviluppo del lavoro decentrato <146. La formula della pacificazione forzata risulta quindi solida a patto di essere accompagnata alla «prassi coercitiva del comando nella regolamentazione del conflitto sociale »147, che si esprime nella regolamentazione degli scioperi ed in una progressiva «carcerizzazione del sociale» <148: con tale termine, il collettivo intende fare riferimento alle conseguenze del 7 aprile, che – nel momento di redazione del documento – vedeva ancora 4.000 militanti sottoposti al regime carcerario <149.
In relazione a ciò, per il COCOBO risultava prioritaria la costituzione di un movimento di liberazione, «che ha come discriminante il rifiuto della differenziazione e della subordinazione istituzionale »150. In una sola frase viene chiarita la posizione di diniego del movimento nei confronti sia della proposta di legge sulla dissociazione per terrorismo <151 sia delle richieste di amnistia, dilemma che lacererà interiormente il variegato tessuto dell’Autonomia post-77 <152.
La condizione irrinunciabile per la nascita di un movimento di liberazione risiede nella sua capacità di poter divenire un movimento di massa: requisito che ai militanti doveva sembrare raggiungibile, visto il successo numerico delle manifestazioni a Voghera e Comiso, avvenute rispettivamente il 9 luglio e l’8 agosto del 1983. Proteste – quelle avvenute nell’estate del 1983 – che si erano concluse con violente cariche e numerosi arresti: i dettagli delle due giornate saranno approfonditi in seguito, ma va sottolineato come essi risultino esemplificativi di interventi della forza pubblica ben lontani dal paradigma di soft policing <153. Di fronte ad una ripresa generalizzata delle lotte, secondo il COCOBO, un movimento di massa poteva «riarticolare una piattaforma politica di lotta basata sull’egualitarismo» <154, ponendosi obiettivi intermedi e definitivi: alla richiesta di migliori condizioni carcerarie (aumento di ore d’aria e del numero dei colloqui consentiti, abolizione dei sistemi di afflizione interna e reale diritto all’assistenza sanitaria) si accompagna la lotta per l’abolizione dell’articolo 90, dell’isolamento e per la chiusura dei carceri speciali <155. Ne consegue chiaramente l’obiettivo di riuscire ad abolire la legislazione speciale (dalla Legge Reale all’incoraggiamento del pentitismo), i reati associativi e di pericolo, i reati d’opinione e il fermo di polizia. Non solo: la riflessione sul carcere e sul sistema delle pene, scaturita dal trauma degli arresti del 1979, portò il collettivo a porre come obiettivi definitivi la chiusura di carceri minorili e manicomi criminali, nonché la soppressione dell’ergastolo e della recidiva.
Di fronte a propositi così radicali, venivano tratteggiati obiettivi transitori, da raggiungere fintantoché l’istituzione carceraria e la repressione legislativa fossero rimaste immutate, come l’incremento delle forme alternative alla detenzione, lo sganciamento della libertà provvisoria dalla discrezionalità del giudice e riduzione dei tempi di carcerazione preventiva <156.
Per quanto il tema carcerario occupi una posizione di spicco all’interno del dibattito portato avanti dal collettivo, l’analisi operata dai militanti del COCOBO sulla società italiana negli anni Ottanta non si fermava al concetto di “carcerizzazione” del sociale: in un documento, sempre datato al 1984, dal titolo “Produzione – comunicazione – controllo”, ci si interrogava sull’utilizzo delle forme di comunicazione e sull’importanza del controllo del sapere <157. Se le riduzioni salariali, l’utilizzo delle nuove tecnologie in campo industriale e la repressione carceraria erano considerati come punti fondamentali per la restaurazione politico-economica, quest’ultima non poteva che accompagnarsi ad una restaurazione culturale, fondamentale per garantire la comunicazione del potere stesso <158. Per quanto la delineazione dei mezzi di comunicazione richiami tratti quasi orwelliani <159 e possa risultare quantomeno semplicistica, la sua funzione nel discorso consisteva nel giustificare la necessità di una controinformazione, attuata perlopiù nella forma della contro-inchiesta <160.
Si è già accennato all’avvento delle nuove tecnologie: va però aggiunto che tale tema trova ampia trattazione nelle autoproduzioni di quasi tutti gli attori collettivi. Nel documento analizzato, l’attenzione si posa particolarmente sull’informatica, strumento fondamentale per assicurare e mantenere il controllo sul ciclo della produzione e in generale sui cittadini (tramite l’ausilio delle banche dati) <161. Nell’ottica del COCOBO, l’avvento dell’informatica e della robotizzazione venne perlopiù analizzato in relazione al suo impiego in ambito lavorativo, vedendo nelle nuove tecnologie uno dei tratti principali della mutata configurazione economico-produttiva.
In un’autoproduzione lunga 13 pagine – sempre risalente al 1984 – vediamo snocciolati i tratti salienti del nuovo scenario economico, all’interno del capitolo intitolato “Ristrutturazione e divisione internazionale del lavoro”: si fa riferimento principalmente ai fenomeni di decentramento e internazionalizzazione del sistema produttivo, il cui ciclo viene controllato e coordinato per mezzo delle tecnologie informatiche <162. Non solo: viene sottolineata l’esportazione verso gli Stati del terzo mondo dei «comparti produttivi politicamente obsoleti» <163 (come la produzione di beni di consumo), mentre «le economie avanzate si riconvertono nella produzione di beni di investimento» <164 (si fa particolare riferimento all’industria informatica e a quella militare).
Ne consegue che, mentre negli Stati della “periferia mondiale” la composizione della forza lavoro si caratterizzava ancora per la predominanza dell’operaio-massa, nelle economie avanzate – caratterizzate da un’organizzazione del lavoro post-tayloristica – quest’ultimo perdeva di peso, dinanzi alla «crescita relativa di una forza lavoro tecnico-scientifica» <165.
[NOTE]
134 La citazione è stata estrapolata dall’intervista realizzata a Valerio Evangelisti, il 13/11/2017.
135 Lo stesso Evangelisti aveva già trattato in forma scritta il tema della transizione dei movimenti negli anni ’80: cfr. Siamo gli autonomi, siamo i più duri…, in Sergio Bianchi e Lanfranco Caminiti (a cura di), Gli autonomi. Le storie, le lotte, le teorie. Volume 1, Derive Approdi, Roma 2007, pp. 311-315. Il testo del saggio è anche rintracciabile online, alla pagina web https://www.carmillaonline.com/2007/03/29/gli-autonomi-1-2/.
136 Per brevità, ci si riferirà al suddetto movimento utilizzando l’acronimo COCOBO.
137 Il legame tra il COCOBO e i due soggetti citati risulta evidente dai contenuti delle pubblicazioni del collettivo bolognese, nonché dalla sua partecipazione al Coordinamento antimperialista e antinucleare. Un’ulteriore conferma di tale legame è stata data dall’interviste realizzate a Valerio Evangelisti e a “Franco Fiore”; lo stesso Evangelisti, in Evangelisti, Siamo gli autonomi, siamo i più duri, pp. 311-315, conferma l’alleanza tra il collettivo di via dei Volsci, l’Autonomia storica padovana e il Comitato Antimperialista e Antinucleare (al quale il COCOBO aderì).
138 Oggi, l’edificio in questione si trova al 5/a di via Avesella. Lo stesso Evangelisti, impegnato nella gestione della sede verso la fine degli anni ’70, ne ha riassunto la variegata storia in Valerio Evangelisti, Movimento a via Avesella, il Manifesto, 21 agosto 2008. Il testo dell’articolo è rintracciabile online alla pagina web https://www.carmillaonline.com/2008/10/25/movimento-a-via-avesella/.
139 «Tutto ciò ha una storia. Per esempio, la presenza di un’osteria. Accadde che, subito dopo il ’77, la polizia si accanì contro la libreria anarchica Il Picchio, diretta da Mario Barbani (militante glorioso della FAI, delfino di Armando Borghi) e situata nella vicina via de’ Preti. Barbani chiese ospitalità al 5/B, e gli fu accordata in via provvisoria. La “provvisorietà” della sistemazione fu però smentita dal fatto che, invece di un centro di documentazione, l’anarchico installò una sorta di birreria, dove erano in vendita giornali e libri “antagonisti”, ma in cui prevaleva il servizio di bar. […] Quando però Barbani cominciò a esigere che il parallelepipedo interno al cortile di via Avesella gli fosse concesso per sempre, alla riunione degli eredi storici dei locali eravamo solo in due: io e un altro (credo, ma non ne sono certo, Tiziano Loreti: allora leader del Collettivo Alter, oggi segretario bolognese del PRC). Fummo sommersi da una quantità di comitati di quartiere inventati per l’occasione, di cui nessuno aveva mai sentito parlare. Dovemmo cedere, e così nacque l’osteria tuttora esistente». Cfr. Evangelisti, Movimento a via Avesella, il Manifesto, 21 agosto 2008.
140 Ibidem.
141 Archivio “Marco Pezzi”, fondo “Franco Fiore”, b. 5, fasc. 6, senza titolo. Il documento si presenta diviso in 10 punti, ognuno dotato di titolo.
142 Ibidem.
143 Ibidem. Il corsivo viene utilizzato dall’autore del documento.
144 Ibidem.
145 Ibidem.
146 Ibidem.
147 Ibidem.
148 Ibidem. L’espressione “carcerizzazione del sociale” va ad intendersi come sinonimo di repressione verso i movimenti antagonisti e allo stesso tempo verso le fasce sociali più deboli ed emarginate dal potere (i cosiddetti non-garantiti, per usare il lessico del ’77).
149 Ibidem.
150 Ibidem.
151 «Il suo progetto politico è spaccare il già diversificato fronte dei detenuti politici, dividerlo in irriducibili, da seppellire sotto anni e secoli di galera, da annientare con le torture tecnologiche più raffinate e in recuperabili, da riciclare molto gradatamente in strutture di controllo sociale». Ibidem. La legge sulla dissociazione per terrorismo verrà approvata il 18 febbraio 1987 Cfr. Roberto Patruno, Primo “sconto” per i dissociati BR, La Repubblica, 12 marzo 1987. Il testo dell’articolo è rintracciabile nell’archivio online del quotidiano, alla pagina web http://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/1987/03/12/primo-sconto-per-dissociati-br.html.
152 «È compito del movimento comunista battersi con decisione nei confronti di coloro che subordinano in primis ai movimenti dello stato e delle istituzioni la speranza della propria liberazione». Ibidem.
153 Donatella Della Porta, Polizia e protesta, pp. 291-293.
154 Archivio “Marco Pezzi”, fondo “Franco Fiore”, b. 5, fasc. 6, senza titolo.
155 Ibidem.
156 Ibidem. Va sottolineato come spesso, nell’ambito degli arresti legati al 7 aprile 1979, gli arrestati trascorsero periodi lunghi anche diversi anni in attesa di giudizio: in molti casi, i militanti incarcerati – spesso sottoposti al regime di carcere duro – furono assolti o addirittura prosciolti.
157 Archivio “Marco Pezzi”, fondo “Franco Fiore”, b. 5, fasc. 6. Produzione – comunicazione – controllo.
158 «La restaurazione politico economica richiama quella culturale, è un presupporsi a vicenda nel rapporto dinamico che regola l’esercizio del potere e il mezzo attraverso il quale il potere stesso viene “comunicato”». Ibidem.
159 «Ad un sistema di strumenti che crea parcellizzazione, selezione e controllo, deve corrispondere la costruzione di individui “regolati” attraverso un canale di informazione che programma le scelte, i modi di pensare e così via. Ancora: la logica di ripetere un milione di volte una menzogna che diviene verità». Ibidem.
160 «Lo scardinamento di un progetto di restaurazione culturale e politico passa sia attraverso le lotte, la capacità proletaria di materializzare in organismi di contropotere la sua volontà di continuare la negazione della metropoli, sia attraverso il lavoro della controinchiesta, della contro “verità”. Importanza di contro-inchieste, come nel caso Pedro, da mettere in luce». Ibidem.
161 Ibidem.
162 Archivio “Marco Pezzi”, fondo “Franco Fiore”, b. 5, fasc. 6, senza titolo.
163 Ibidem.
164 Ibidem.
165 Ibidem.
Yannick Aiani, Nel labirinto degli anni Ottanta: la riformulazione dell’azione collettiva e delle reti di cooperazione nei movimenti sociali a Bologna, Tesi di laurea, Alma Mater Studiorum Università di Bologna, Anno accademico 2017-2018

Pubblicato in Senza categoria | Contrassegnato , , , , , , , , , , , , , , , , , , | Lascia un commento

Sull’Antola c’è già un gruppo di nostri elementi

Fonte: La CGIL nel novecento art. cit. infra

11 settembre 1943
I tedeschi di Savona, dopo averci minacciato di fucilazione per il nostro rifiuto di consegnare loro i documenti amministrativi del XV Anticentro di cui eravamo soldati, ci hanno spogliati delle divise e rimandati a casa. La pagheranno.

21 settembre 1943
Abbiamo già qualche tavoletta al 25.000 dell’Istituto geografico per le quattro zone montane della Liguria: ne occorrono altre, e bisogna fare copie di quelle che abbiamo. La Ditta E.A. monterà nella mia officina un “reparto riproduzione disegni” che riprodurrà le carte: ma dove trovare la carta fotografica sottile, in larghi fogli? Contatti con lo studente di Torriglia che ne promette.
Adesso ho stabiliti contatti con impiegati della Unione industriali: Pieragostini [Raffaele Pieragostini] si diverte all’idea che la lotta contro il capitalismo filo nazista trovi punti d’appoggio in casa del nemico, e a sue spese. Paggi è l’elemento migliore di questo ambiente: chiede anche libri, pensa, discute. Non ci tradirà (Agostino Paggi è morto a Mauthausen, vittima ignorata della nostra fede, con grande fierezza).

1° ottobre 1943
Sull’Antola c’è già un gruppo di nostri elementi: a Favale anche: sui monti sopra Voltri e sopra Pontedecimo anche. Abbiamo dati, ai singoli responsabili di zona, nomi dei mesi. Gennaio e Febbraio sono a ponente e in Polcevera; Marzo [n.d.r.: Giovanni Battista Canepa] è a Favale; Aprile sull’Antola.
A Lavagna lavorano Bini [Giovanni Serbandini] e suo cognato; un gruppo di giovani, professori, studenti e operai. Sono rientrati in circolazione Buranello [Giacomo Buranello] e i suoi compagni, arrestati nell’ottobre del 1942 a Sampierdarena: lavorano tra gli studenti, ma pensano più a trovare armi che a leggere dispense.

10 ottobre 1943
Un comunista ogni dieci che salgono ai monti è l’obiettivo iniziale che si pone il partito della classe operaia. Qui ne salgono otto su dieci. Pieragostini mi presenta a Castelletto, tra un vento furioso che tiene lontani tedeschi e benpensanti Lucio e Paolo [?]: uno esce da anni di galera, l’altro viene dall’esilio. Male vestiti, debilitati dagli stenti, saliranno in settimana sui monti.

23-24 ottobre 1943
Riunione sull’Antola: Paolo prende le consegne da Aprile; Marzo, zoppicante con barba da mazziniano e mantellaccio da contadino spagnolo, è giunto a piedi da Favale, via Barbagelata.
Ardesio [Ingegner Agostini (Pietra o Ardesio)] e Falini [?] sono saliti da Genova, altri da Torriglia. Ispezioniamo e lasciamo presidiata la zona Antola – Capanne di Carrega. La notte nella “Casa del romano” è stata passata, tra le paure della padrona, i nostri fucili, la pioggia di fuori e la fame di dentro. La sera del 24 a mezzanotte arriviamo con Ardesio a Busalla, piena di tedeschi. La montagna era deserta e ci aveva dato senso di sicurezza: i fascisti restano tappati nelle loro casermette di avvistamento antiaereo, dalle quali occorre sloggiarli al più presto, come si è convenuto sull’Antola. Dormiamo da Macciò [Enrico Macciò], che (sappiamo poi) nasconde noi al piano terreno, in camera da pranzo; Dellepiane [Arturo Dellepiane] al primo piano, Sem Benelli al secondo, e riceve all’indomani la visita di un tizio che mi rifiuto di conoscere e che si scoprirà poi essere una spia dei tedeschi (Macciò pagherà cara la sua entusiastica imprudenza: è caduto anch’egli a Mauthausen nel 1944). Ripartiamo con una certa urgenza all’indomani.

Fine ottobre (cancellato) 1943

Le prime casermette fasciste sono state assaltate: gioia di leggere la notizia, tanto attesa, nei giornali fascisti. Il tenete delle brigate nere è caduto a Sampierdarena. I Gap si affiancano nell’azione ai gruppi partigiani. Elementi di altre correnti politiche, prima dubbiosi, sono ora presi dall’entusiasmo. Il buon Pepe [Giuseppe Bianchini] ha già pronta la “zucca” per la emissione della nostra moneta. I nemici sono numerosi: è saltato un ponte e si è data la colpa a un fulmine. Poi ne è saltato un altro in piena giornata di sole. Un compagno di Certosa mi telefona un giorno chiedendomi come mai si sente sparare e non è suonata la sirena d’allarme: è il comunicato che l’operazione dei Gap di Certosa è riuscita. Abbasso il ricevitore e faccio un salto di gioia.

4 novembre 1943
Sul monumento ai caduti di Lavagna si è trovato scritto: A morte i tedeschi, viva la libertà. Gli autori, da domani, partiranno ai monti: chi sa dove finirà Piccolo campo di Caldwell che avevo prestato a uno di loro.

Novembre 1943
Sciopero dei tramvieri. E’ riuscito superbamente. A colazione incontro Manes [?] [n.d.r.: Manes era Carlo Farini, detto anche Simon]: è tanto contento da diventare pericoloso: beviamo alla salute dello sciopero e dei tramvieri. Hanno arrestati Guglielmetti [Romeo Guglielmetti] ed altri: cadranno da eroi, come hanno combattuto in questi giorni. Rino Mandoli, dopo otto anni di galera, prende il suo posto tra noi. (Rino Mandoli – Sergio – salì poi a Capanne di Marcarolo. Fu catturato come borsanerista, tradotto ad Alessandria, riconosciuto da veneziani, fu poi trasferito a Genova. Fu ospite della stessa mia cella alla IV Sezione: pensammo di essere fucilati insieme. Deportarono me ed uccisero lui, sul Turchino, nel maggio 1944. Caro grande Sergio).

Fine novembre 1943
Funziona, come può, il primo Comitato militare di Cln: Raimondo [Enrico Raimondo] per la Dc; Rapuzzi [?] per il Pda (poi Lanfranco [Eros Lanfranco], poi Tomasi [Giovanni Trombetta, Tomasi]); Bruzzone [Dante Bruzzone] per i socialisti; Lazagna [Umberto Lazagna] per i liberali. Sede il San Nicola, lo stesso Collegio dove, nel 1926, ci trovammo con Carlo Roselli, Manzitti [Francesco Manzitti], Tarello [Mario Tarello], Sabatelli [Francesco Sabatelli] e altri, per ricostruire le file dell’antifascismo. Caro Marchi [Giulio Marchi], sempre eguale dopo vent’anni, sempre antifascista, sempre coraggioso, sempre ingenuo.

Dicembre 1943
Nello o Nullo [?], ispettore [n.d.r.: con ogni probabilità si trattava di Giancarlo Pajetta] delle Brigate Garibaldi, non è malcontento del lavoro fatto a Genova: Dario, ispettore del Gap, ci consegna la miccia che ci mancava sotto forma di uno spago col quale teneva legato un suo pacco, ostentato sui treni e per la strada. Litighiamo perché ne vogliamo un metro di più e lui ci assicura che ripasserà quando sarà per finire. Il coprifuoco è alle 16. Lo porteremo a Mezzogiorno!

Dicembre 1943
Continuano le ispezioni in montagna: sui treni, nelle corriere, per le strade di Marassi, trovi sempre qualcuno che mi conosce. Fino a quando crederanno che vado in cerca di patate per la famiglia? Ispezione notturna agli uomini di Marzo [n.d.r.: Giovanni Battista Canepa], gente di Chiavari, emiliani dell’esercito che non hanno potuto andare a casa, sua figlia che fa la staffetta. Polenta e castagne secche: per festeggiarmi, anche il vino. Il solenne e misterioso “Comitato militare di Cln” manda, per mio tramite, i capitali occorrenti alla alimentazione e all’armamento: cinquecento lire.

Dicembre 1943
Ardesio ha trovato l’ufficiale radiotelegrafista che aspettavamo. Lo battezziamo Bisagno [Aldo Gastaldi] e lo affianchiamo a Bini [Giovanni Serbandini].

20 dicembre 194[3] (l’originale riporta 1944, ma dovrebbe trattarsi di un errore)
Porto Dante [Stanchi ?] a Cichero dove già sono Marzo, Bini e Bisagno; il gruppo è di molte decine di uomini. Nasce il problema della… licenza natalizia. I compagni stanno perdendo la nozione di come sia difficile passare dai posti di blocco e venire in città. Soprattutto non si rendono conto dei pericoli delle loro inevitabili confidenze familiari al tavolo di Natale.
Battuta a Chiavari per scavare le armi sepolte l’8 settembre: oggi abbiamo braccia disposte ad usarle bene. Rientrano a mezzanotte incolumi: vestiti da contadini hanno sulle spalle alberelli fasciati con piccole radici da un lato e foglie dall’altro. Slegati gli alberi si rivelano fucili truccati. Danze notturne, sulla montagna, complice sicura. Tra poco, se i contatto con Ruggiero daranno i frutti sperati, dovremmo avere i primi lanci. Gli inglesi (quelli del colonnello Gore) non volevano farne perché “ci sono troppi comunisti tra i partigiani”: gli americani pare non siano di questa idea.

Gennaio 1944
“L’erba cresce d’estate”; “Le api hanno il miele”: Radio Londra trasmette le parole d’ordine attese. I lanci ci saranno.
I lanci ci sono stati. Lanfranco inalbera per Genova una camicia bianca a righe azzurre, ricevuta dal cielo. Ma ci sono anche scarpe, armi, cioccolata. I nostri uomini avranno meno fame.

20 gennaio 1944
Ispezione a Prato Sopralacroce, con Bini e Bisagno. Il parroco, l’oste, la mia aria borghese, la loro da pirati barbuti, un autista – maledizione – che mi conosce da ragazzo, a Cornigliano.
Usiamo i casoni di alloggiamento per il dispositivo strategico che era scoperto in quel settore: facciamo i tonti fino al momento di ripartire. Sapremmo poi che l’oste era una spia e che sapeva i nostri nomi: ci attenderà al varco per molto tempo per darli a Spiotta [Vito Spiotta].
Chi di noi cadrà, cadrà per altri motivi e in altre situazioni. La fortuna assiste i combattenti per la patria e per la libertà.

Febbraio 1944
Siamo migliaia. I problemi di approvvigionamento preoccupano Ardesio, che ha 600 uomini alla Benedicta.

Redazione, I primi giorni della Resistenza a Genova (settembre 1943 – febbraio 1944). Dall’Archivio storico CGIL nazionale il diario di Franco Antolini, La CGIL nel novecento, 9 settembre 2015

Pubblicato in Senza categoria | Contrassegnato , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , | Lascia un commento

La grande capacità dell’organizzazione comunista fu quella di veicolare in città la notizia della riuscita della manifestazione di Mirafiori

Prima pagina de “l’Unità” clandestina del 15 marzo 1943 – Fonte: Fondazione Gramsci

Tra la fine del 1942 e l’inizio del 1943, le condizioni di vita e di lavoro delle masse operaie e della piccola borghesia erano sempre più in rapido e costante regresso. L’inflazione che immiseriva i salari reali, la penuria dei generi alimentari razionati e il conseguente aumento dei prezzi del mercato libero e della borsa nera, avevano prodotto una sensibile riduzione delle possibilità di approvvigionamento alimentare. Nell’autunno inverno 1942 si registravano le prime azioni di protesta nelle fabbriche di Torino, Milano e Sesto San Giovanni. Tra l’aprile 1942 e l’aprile 1943 furono 2.600 gli arrestati per manifestazioni sovversive nelle zone industriali settentrionali. <62
Gli scioperi avevano soprattutto un carattere economico e di rivendicazione salariale per fare fronte a condizioni di vita che divenivano sempre più insopportabili soprattutto nelle città. Nel comasco e in Brianza molti operai erano anche piccoli coltivatori, che integravano il magro salario con i prodotti agricoli, destinati al consumo famigliare scongiurando il rischio di vera e propria denutrizione patita dagli operai delle grandi città. <63
Tutto ciò, in alcuni casi, come accadde in Alta Brianza per lo sciopero generale del marzo 1944, faceva venir meno la volontà di lotta. Va inoltre detto che la massa operaia nelle grandi fabbriche di Milano e di Sesto San Giovanni, favoriva una più forte Resistenza, anche morale, contro la repressione, mentre nelle medie e piccole fabbriche brianzole, la conoscenza tra lavoratori e padroni era più diretta e il ricatto padronale più immediato; quindi era pericoloso esporsi in pochi. Quasi nulla era inoltre la penetrazione del Pci che organizzò il malcontento dei lavoratori e capì che, ormai, dopo le numerose agitazioni dei mesi passati, uno sciopero generale era possibile e decise di promuoverlo attraverso i comitati di agitazione <64.
[…] Il 1° marzo si accese la protesta in tutte la città industriali del nord. Nel milanese, a Sesto San Giovanni, la Breda, la Falck, la Magneti Marelli, furono il fulcro dello sciopero e il punto di riferimento anche per la Brianza dove si scioperò a Monza, Desio, Meda e Mariano Comense. Nella Brianza comasca fu abbastanza attiva la zona di Cantù, dove la filotecnica Salmoiraghi attuò lo sciopero il 2 marzo. Il foglio clandestino “il fronte proletario”, comunicò che si erano astenuti dal lavoro alla Salmoiraghi 350 dipendenti <65. Il Notiziario della G.N.R. dell’8 marzo 1944 riferì che dei 600 operai della filotecnica Salmoiraghi, si presentarono al lavoro in 200 circa, che abbandonarono alle 10.30 lo stabilimento per solidarietà con i lavori in sciopero. <66
Le due fonti di opposta tendenza, quindi, concordavano sul numero degli operai in sciopero alla Salmoiraghi.
Lo sciopero generale del marzo ’44 fu la più grande protesta di massa avvenuta nell’Europa sotto il dominio tedesco.
[NOTE]
62 Cfr. Roncacci Vittorio, La calma apparente del lago. Como e il Comasco tra guerra e guerra civile, Macchione Editore Varese 2003, pp.42-43. Tutto ciò, in alcuni casi, come accadde in Alta Brianza per lo sciopero generale del marzo 1944, faceva venir meno la volontà di lotta. Va inoltre detto che la massa operaia nelle grandi fabbriche di Milano e di Sesto San Giovanni, favoriva una più forte Resistenza, anche morale, contro la repressione, mentre nelle medie e piccole fabbriche brianzole, la conoscenza tra lavoratori e padroni era più diretta e il ricatto padronale più immediato; quindi era pericoloso esporsi in pochi. Quasi nulla era inoltre la penetrazione del P.C.I. che organizzò il malcontento dei lavoratori e capì che, ormai dopo
63 Cfr. Roncacci Vittorio, op. cit., p.51;
64 Cfr. Ibidem;
65 Cfr. Gatti Marco, La stampa comasca nella Repubblica Sociale Italiana, Istituto comasco per la storia del movimento di Liberazione, Ed. Graficop Como 1996, pp.226-227;
66 Cfr. Perretta Giusto, Notiziari della Guardia Nazionale Repubblicana della Provincia di Como 1943-1945,
Ed. Istituto Comasco per la storia del movimento di Liberazione, Graficop Como 1990, p.16;
Laura Bosisio, Guerra e Resistenza in Alta Brianza e Vallassina, Tesi di Laurea, Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, Anno Accademico 2008-2009

[…] Il 14 marzo [1943] a Milano si riunivano i membri della Direzione del Pci là presenti i quali, accolta la proposta del Comitato operaio di Torino, lanciavano un manifestino ai lavoratori milanesi e prendevano una serie di misure per assicurare l’estensione del movimento. Il 15 marzo veniva diffusa a Torino, Milano e in molti altri centri industriali l’Unità. Grandi titoli annunciavano: “Lo sciopero di 100 mila operai torinesi”. La direttiva era chiara: “Tutto il Paese segua il loro esempio per conquistare il pane, la pace e la libertà”.
Dal 16 marzo ai primi di aprile lo sciopero si estese in tutti i principali centri industriali del Piemonte: a Pinerolo, Villar Perosa, Asti, Savigliano, Biella, nella valle d’Aosta, ecc., e nella Lombardia.
A Milano nei giorni 16, 17 e 18 marzo si riunirono i comitati di zona del Pci. Il 19 alla Caproni e in alcuni stabilimenti di Sesto San Giovanni si verificarono i primi scioperi. Nel corso della settimana successiva il movimento si estese in tutti i principali stabilimenti della città e della provincia, alla Pirelli, Breda, Motomeccanica, Borletti, Marelli, ecc. Alla fabbrica Innocenti la maestranza, composta in maggioranza di donne, scendeva in massa nel cortile della fabbrica e sosteneva violenti scontri con le guardie metropolitane inviate dai gerarchi fascisti. Alla Face in via Bovio, le operaie manifestavano al grido: “Abbasso la guerra!”. Le guardie spararono sulla folla uccidendo un’operaia e ferendone gravemente altre nove.
Alla Borletti ed alla Pirelli, i soldati inviati per reprimere lo sciopero fraternizzavano con gli operai. Ad Abbiategrasso un membro del Gran Consiglio fascista, Cianetti, tentava di parlare alle maestranze, ma veniva preso a sassate e messo in fuga. Alla Brown Boveri, alle ore 10 del 24 marzo, i giovani apprendisti del reparto n. 71 iniziavano per primi lo sciopero. Il direttore ing. Rolandi, accompagnato dai diversi capiservizio, si portava sul posto per reprimerlo. Gli operai del reparto n. 70, venuti a conoscenza dell’intervento del direttore, accorrevano in difesa dei giovani compagni di lavoro. Un operaio affrontava il direttore e in presenza della maestranza esponeva e difendeva i motivi dell’agitazione. Lo sciopero nel pomeriggio si estese in tutto lo stabilimento.
Malgrado la repressione ordinata da Mussolini, malgrado le centinaia e centinaia di operai arrestati a Torino, Asti, Biella, Pinerolo e a Milano e provincia, lo sciopero continuò ad estendersi.
L’agitazione minacciava di svilupparsi nelle fabbriche della Liguria, Venezia Giulia e dell’Emilia. Nell’impossibilità di arrestare il movimento con i soliti mezzi repressivi a causa della possente e organizzata azione delle masse operaie, il governo fascista fu costretto a cedere.
Il 3 aprile, dopo un mese di scioperi, dopo l’interruzione di un mese nella produzione bellica, la classe operaia obbligava Mussolini a operare una prima grande “ritirata strategica”: i salari e gli stipendi furono aumentati.
Gli scioperi, iniziati il 5 marzo, terminarono nella prima quindicina del mese di aprile con una importante vittoria della classe operaia italiana. Il grande movimento, avendo colpito il governo fascista all’interno del Paese, rappresentò il primo grande contributo della popolazione italiana alla guerra di liberazione degli Alleati. Lo sciopero ebbe un’eco in tutto il mondo e i suoi effetti furono decisivi per lo sviluppo della vita politica del nostro Paese. I popoli progressivi accolsero e salutarono gli scioperi della classe operaia italiana come una grande manifestazione degli italiani contro la guerra nazifascista. L’apparato del governo e delle organizzazioni fasciste si sgretolò. Sotto la pressione delle sconfitte militari e sotto l’azione delle masse lavoratrici italiane il governo fascista precipitava verso la sua completa rovina.
Lucio Cecchini, 1943: gli scioperi di marzo e aprile, Patria Indipendente,  n° 3 – 30 marzo 2003 

[…] La storia del loro svolgimento è stata narrata all’infinito da testimoni diretti come Umberto Massola – che di quei giorni diverrà l’esegeta anche con il suo libro «Marzo’43, ore 10» – Leo Lanfranco, Vito Damico e tanti altri ed è tuttora ammantata da un velo di leggenda. Lo sciopero viene fissato per venerdì 5 marzo 1943: la sospensione del lavoro deve avvenire alle 10, al suono, come ogni giorno, della sirena d’allarme.
La sirena non suona
Ma nel cuore industriale della città, a Mirafiori, la sirena non suona perchè la direzione è stata preavvertita. Ma il contrattempo non ferma la lotta. All’officina 19 la fermata parte comunque pochi minuti dopo. Nel settore aeronautico della Fiat Augusto Bazzani racconta: «Il segnale non è azionato, ma gli operai smettono di lavorare e vanno verso l’uscita. Il caporeparto li richiama, non è degnato neppure di uno sguardo».
E alla Fispa Carlo Peletto narra: «Noi abbiamo scioperare l’8 marzo. Non avevamo la sirena; si decise che il segnale lo avrei dato io fermando il mio tornio e girandomi verso i compagni di lavoro.  Fermai le macchine, mi girai e incrociai in un sol colpo gli occhi di tutti che mi puntavano: dopo pochi secondi tutte le macchine erano ferme».
Un evento simbolico
In realtà – come ricordano molti storici – la grande capacità dell’organizzazione comunista fu quella di veicolare in città la notizia della riuscita della manifestazione di Mirafiori, simbolo della resistenza operaia, tanto che il lunedì successivo, 8 marzo, lo sciopero riprese e si diffuse in gran parte delle fabbriche torinesi. E poi come per osmosi raggiunse il resto del Piemonte e arrivò a Milano.
Come ricorda Roberto Finzi nel suo libro «Marzo 1943 – Un seme della Repubblica fondata sul lavoro» (Clueb, Bologna) quell’anno è un anno si svolta: il 2 febbraio i sovietici vincono a Stalingrado, il 9 febbraio gli americani a Guadalcanal. Le sorti della guerra «si invertono in Europa come in Oriente».
La caduta del fascismo
E per l’Italia sarà l’anno della caduta del fascismo, dell’invasione nazista, della repubblica di Salò. E della nascita della Resistenza di cui sicuramente gli scioperi del marzo – che dureranno fino a metà mese e coinvolgeranno secondo una ovvia stima per difetto del regime 40 mila operai – sono l’inizio. Gli operai chiedono una indennità di carovita e il pagamento a tutti delle 192 ore di sfollamento. Rivendicazioni economiche che si intrecciano ormai alla ripulsa della guerra e del fascismo. Un intreccio di spontaneità e di organizzazione comunista come analizzato da Claudio Dellavalle. Scioperi che vengono pagati com 164 arresti e 37 deferiti al tribunale speciale. Ma il fascismo ha ormai imboccato la sua lunga agonia.
Marina Cassi, Mirafiori: 70 anni fa rivolta operaia, La Stampa, 6 marzo 2013

Pubblicato in Senza categoria | Contrassegnato , , , , , , , , , , , , | Lascia un commento

Marco Tarchi ha affermato giustamente che il populismo ha un nucleo di caratteri ricorrenti, che lo fanno somigliare ad una ideologia

Si è scelto qui di seguire l’ottimo saggio di Matteo Truffelli per distinguere in questo mare di termini confusi i diversi concetti e cercare una definizione convincente di “antipolitica”. Essa va anzitutto distinta dal “qualunquismo”, termine che andrebbe usato esclusivamente per il movimento di Guglielmo Giannini, ma che proprio per confronto con quell’esperienza fu usato (e lo è ancora) per descrivere una gamma di fenomeni ritenuti affini <111.
L’altra importante distinzione è quella con il “populismo”. Qui la faccenda è più complicata: i termini sono usati come equivalenti, ma sembra più corretto vedere il populismo come una delle incarnazioni possibili del pensiero antipolitico. Alcuni hanno proposto una differenziazione fra un livello di élite che esprime il populismo, con un’identità più solida, e un livello di massa dove è diffusa l’antipolitica, come sentimento più generico <112. Marco Tarchi ha affermato giustamente che il populismo ha un nucleo di caratteri ricorrenti, che lo fanno somigliare ad una ideologia e che «è possibile individuare anche quando viene assorbito a fini puramente strumentali da soggetti insensibili al suo credo profondo e mescolato a prassi o programmi che gli sono, nella sostanza, estranei.» <113. Questo nucleo è ovviamente costituito in primo luogo da un“appello al popolo” (omogeneo in senso anticlassista, maggioranza, tradizionale, morale, nazionale/etnico) fonte dell’unica vera legittimità e sede di una volontà superiore ad ogni altra norma <114. Il popolo si definisce anche per contrasto con i suoi nemici, nella cui individuazione si ricorre spesso ad
argomentazioni complottiste (si è vittima dello straniero, dei poteri forti, delle quinte colonne, degli invasori). «La chiave di volta della mentalità populista» dice Tarchi «è la diffidenza verso tutto ciò che non può essere racchiuso nella dimensione dell’immediatezza, della semplicità, del rapporto diretto e visibile con la realtà, delle abitudini e delle tradizioni.». Il posto d’onore fra i nemici del popolo spetta al mondo della politica, di cui si contestano la corruzione, la rissosità, la distanza dalla gente comune, l’inconcludenza.
Sgombrato il campo da alcuni equivoci si può meglio apprezzare l’idea forte del saggio di Truffelli: l’antipolitica è l’ombra della politica moderna, una sua «componente intrinseca […] un rovescio negativo di essa, profondamente connesso con i suoi caratteri di fondo.» <115. Si può perciò concordare a livello filosofico con lo studioso, sul fatto che non esista un “fuori”, un vivere sociale non politico, «l’antipolitica[…] non rappresenta, in realtà, che una forma di politica essa stessa.» <116.
L’antipolitica è il rifiuto e la delegittimazione (espressa attraverso la sua denigrazione continua) della politica «come corpo estraneo che tende[…] a sovraordinarsi sia alla sfera individuale sia a quella della società civile, rispetto ai cui interessi risulta nociva, o, quantomeno, inutile» <117. Questo ultimo punto, però, contiene non solo la questione della legittimazione ma anche quella del rapporto fra autorità e libertà <118. Lo studioso ritiene che proprio dall’opera dei fondatori del pensiero politico dell’età moderna si siano ricavati attraverso una serie di passaggi argomentazioni antipolitiche, viste in campo poi nella rivoluzione francese e la creazione della opinione pubblica, così come nella contrapposizione court/country del dibattito fra tories e whigs in Inghilterra. Furono i contrattualismi, superando la concezione aristotelica dell’uomo come animale politico e della politica come necessaria e naturale, a trasformarla in un artificio che andava a sostituire lo stato di natura. Questo carattere umano e artificiale della politica aprì due inaspettate possibilità: la sua riprogettazione radicale, il pensiero utopico-rivoluzionario; il suo rifiuto come qualcosa di estraneo e contrapposto all’ordine naturale, il pensiero antipolitico <119.
In età contemporanea si possono vedere operanti in particolare tre argomentazioni forti, che sembrano originate dal rovesciamento o dalla risemantizzazione dei tre pilastri (fonti di legittimazione) della politica, indicati da Max Weber nella conferenza “La politica come professione” nel 1919 <120. Il primo era la tradizione: costume consacrato da una validità risalente a tempi immemorabili e da una disposizione consuetudinaria alla sua osservanza. Questo richiamo può
mutarsi nell’idea di fondare (o tornare a) una società in grado di autogovernarsi senza gli strumenti e le dannose divisioni della politica. Sulla stessa linea vi è la contrapposizione tra una “società civile” «sfera della creatività intellettuale e della produttività economica» idealizzata e il mondo della politica. Il secondo pilastro indicato dal sociologo tedesco era il carisma, dono di grazia straordinario e personale che definiva il politico per vocazione. Esso può invece dare origine ad un leader carismatico che contrappone alla rissosità e all’immoralità dei politicanti le sue qualità superiori, o meglio è capace di «fare un uso più adeguato delle doti che ciascun membro del popolo potenzialmente possiede» <121; facendosi incarnazione vivente della volontà popolare. Infine, c’era la legittimazione della competenza, fondata su regole razionalmente statuite. Da qui, valutando i processi decisionali solo per la loro efficacia e propagandando una presunta oggettività e neutralità della tecnica, si sono elaborate concezioni che vedono la scienza e l’economia detronizzare una politica inefficiente e inefficace.
Nell’immediato dopoguerra fu diffuso nel nostro paese «un rifiuto di riconoscere la legittimità dei due cardini, ideologico l’uno e di “costituzione materiale” l’altro, su cui l’Italia postfascista si era fondata e si reggeva.» <122. Espressioni di questo rifiuto furono rispettivamente l’anti-antifascismo e l’antipartitismo. Questo atteggiamento è stato interpretato principalmente come nostalgia del fascismo, ed è su questa base che ad esempio Giorgio Galli classifica il qualunquismo e altre formazioni europee con tratti simili (come il movimento di Pierre Poujade) come «variante “debole” dei partiti di destra» dopo la scomparsa dei fascismi storici <123.
[NOTE]
111 Su questo concordano diversi studiosi, come ad esempio Ambrosi, che utilizza per la sua ricerca il concetto di populismo, e che ritiene l’antipolitica un concetto più ampio, un atteggiamento di lunghissimo periodo e ampia diffusione, vedi L. Ambrosi, La rivolta di Reggio: storia di territori, violenza e populismo nel 1970, Soveria
Mannelli, Rubettino, 2009, p.23
112 M. Truffelli, L’ombra della politica, cit., p.29 nota 69
113 M. Tarchi, L’Italia populista, cit, p.15
114 Ivi, pp16-18
115 M. Truffelli, L’ombra della politica, cit., p.9
116 Ivi, p.27
117 Ivi, p.30
118 Ivi, p.113
119 Ivi, pp.75-76
120 Ivi, pp.85-99
121 M. Tarchi, L’Italia populista, cit, p.30
122 M. Truffelli, L’ombra della politica, cit., p.48
123 G. Galli, I partiti europei, Milano, Baldini Castoldi Dalai, 2008, p.409
Alberto Libero Pirro, La “maggioranza silenziosa” nel decennio ’70 fra anticomunismo e antipolitica, Tesi di Laurea, Università degli Studi di Roma “La Sapienza”, Anno Accademico 2013-2014

Pubblicato in Senza categoria | Contrassegnato , , , , , , , , , , , | Lascia un commento