Berlinguer da segretario si trovò davanti ad uno scenario politico-economico del tutto nuovo

Quando nel marzo del 1972 approdò alla guida del Pci Enrico Berlinguer, iniziò a soffiare nella sede del Partito comunista italiano un vento nuovo: egli non voleva solamente, dal punto di vista interno, aprire la strada della piena legittimazione al suo partito dal punto di vista governativo e parlamentare; ma voleva, sul piano esterno, cercare di allontanarsi sempre di più dall’Unione Sovietica che aveva influenzato le scelte del Partito comunista, il quale risultava una vera e propria cellula affiliata del Partito comunista dell’Urss. La strategia del segretario venne denominata Eurocomunismo: l’obiettivo era quello di costruire un polo comunista che fosse alternativo a quello sovietico, alla guida del quale si candidò il Pci, che voleva radunare tutti gli altri partiti comunisti occidentali per percorrere la cosiddetta “terza via” tra quella sovietica e quella delle socialdemocrazie Nord europeo. Berlinguer, Ingrao e molti altri esponenti comunisti, pensavano di poter far sposare democrazia, socialismo e rivoluzione democratica e antifascista, creando in Italia la cosiddetta “terza via” che poteva diffondersi in altri paesi del mondo. Con questa strategia volle riprendere il progetto dell’unità democratica di Togliatti, interrotto nel 1947. Berlinguer era convinto che la rivoluzione potesse innestare la terza via, credeva che «era indispensabile che in Occidente si avviasse una rivoluzione diversa da quella del ’17 […] la rivoluzione iniziata dai Bolscevichi ha toccato i suoi limiti storici, ha dato tutto quello che poteva dare, e oggi noi, suoi eredi, dobbiamo andare oltre di essa. Ecco perché la terza via» <91. «L’impianto ideologico aveva bisogno, quindi, di un rinnovamento che lo rendesse compatibile con le democrazie dell’Occidente, nonostante dovesse comunque rimanere legato alla matrice comunista; trovare un’alternativa al capitalismo rimase un presupposto fondante, che però fu effettivamente messo in discussione, precisamente in un’ottica più democratica» <92. Attraverso il progetto di Berlinguer sarebbe potuta venir meno la conventio ad excludendum che aveva impedito l’accesso al governo dei comunisti.
Arrivato nel 1972, Berlinguer si trovò davanti ad uno scenario politico-economico del tutto nuovo. La recessione italiana venne segnata dall’intreccio fra stragi e terrorismo nero e rosso. L’inflazione e la svalutazione evidenziarono gli squilibri tra i profitti delle imprese delle attività in crescita, con i salari dei ceti medi e degli operai in netto calo. A questo si aggiunse un fenomeno di secolarizzazione e modernizzazione del paese che venne dimostrato dalla scelta al referendum sul divorzio del 1974. La recessione prese il via sotto la pesante influenza del contesto internazionale, marcato dalla sconfitta degli americani in Vietnam e dall’iniziativa pressante dell’Unione Sovietica in Africa e in Asia <93. Secondo il neosegretario Enrico Berlinguer si stava assistendo anche ad una recessione del sistema capitalistico e imperialistico, connotata dal crollo delle attività produttive, dal caos nel sistema monetario, dalla crisi in atto negli Stati Uniti e dalla riduzione del Pil nei sette paesi più produttivi del mondo. A questa visione, però, si accompagnava una percezione positiva della condizione dei paesi dell’area socialista: «Ma il dato è che in tutti i paesi socialisti si è registrato e si prevede un forte sviluppo produttivo […]. Nel mondo capitalistico c’è la crisi, nel mondo socialista no. E’, inoltre, ormai universalmente riconosciuto che in quei paesi esiste un clima morale superiore, mentre le società capitalistiche sono sempre più colpite da un decadimento di idealità e valori etici, e da processi sempre più ampi di corruzione e disgregazione» <94.
Questa convinzione di maggiore benessere dei paesi dell’area socialista convinse Berlinguer, già all’interno della sua relazione al XIII Congresso del Pci a Milano nel 1972, ad elaborare la strategia del compromesso storico: «in un Paese come l’Italia una prospettiva nuova può essere realizzata solo con la collaborazione tra le tre grandi correnti popolari: comunista, socialista e cattolica» <95. La strategia che si voleva attuare nel compromesso puntava a diffondere “elementi di socialismo” all’interno della società italiana, cercando di modificarla nel profondo, attraverso “una sorta di rivoluzione ad occidente, che sarebbe stata resa possibile grazie alle originali peculiarità del caso italiano” <96. Per comprendere la volontà di mettere in atto questo compromesso, bisognava capire a fondo quale fosse l’obiettivo: «ogni alleanza comporta determinati compromessi: Lenin ce lo insegna. Si tratta di distinguere tra i diversi tipi di compromesso. Vi è il compromesso che […] rende il movimento operaio subalterno all’egemonia delle classi dominanti. Esso va respinto. Vi è invece il compromesso che consente al movimento operaio […] di spostare a proprio favore i rapporti di forza, di far convergere movimenti diversi verso obiettivi di progresso politico e sociale. Questo è il compromesso necessario e giusto, possiamo dire “rivoluzionario”» <97.
I successi alle elezioni del 1975-1976 portarono alla convinzione, all’interno del Pci, di poter avere un ruolo di grande rilievo sul piano mondiale, di edificare un nuovo modello di società in cui le caratteristiche del socialismo avrebbero modificato a fondo il sistema produttivo capitalistico. Alle elezioni del 1976, quindi, il Partito comunista si presentò in un altro modo, e cioè come unico partito in grado di apportare un forte rinnovamento nel sistema politico italiano. L’appoggio al compromesso trovò un appoggio nell’area di sinistra della Democrazia cristiana, che aveva come esponente massimo Aldo Moro e il segretario Benigno Zaccagnini; non ebbe mai l’avallo dall’ala di destra della Dc, rappresentata da Andreotti. Gli esponenti delle correnti della destra e del centro vedevano l’apertura ai comunisti come un atto opposto ai principi dell’identità della Democrazia cristiana. Lo stesso Andreotti, infatti, dichiarò: «secondo me, il compromesso storico è il frutto di una profonda confusione ideologica, culturale, programmatica, storica. E, all’atto pratico, risulterebbe la somma di due guai: il clericalismo e il collettivismo comunista» <98. Un compromesso parziale si raggiunse, grazie all’appoggio di Moro, attraverso l’appoggio esterno dato dal Pci al governo della “non sfiducia” nel 1976, al quale si sostituì poi nel 1978 la coalizione della solidarietà nazionale guidata da Giulio Andreotti, sostenuta dall’appoggio esterno del Pci, del Psi, del Psdi e, infine, del Pri <99. Berlinguer stava così portando a compimento il suo piano di compromesso. L’incontro problematico fra Pci e Dc spinse però l’estrema sinistra a sabotare il Partito comunista e portò le Brigate rosse a rapire e poi ad uccidere Aldo Moro, proprio nel giorno della prima discussione sulla fiducia al nuovo governo Andreotti IV il 16 marzo del ‘78. Caduto questo governo, e senza il sostegno di Moro, il compromesso storico venne messa da parte.
Gli anni del 1978 e il 1979 furono le stagioni del secondo shock petrolifero e della rivoluzione islamica in Iran. A caratterizzare invece le circostanze italiane vi erano la crisi economica, il terrorismo dilagante e l’assalto ai vertiti della Banca d’Italia, in cui vennero incarcerati il vicedirettore Mario Sarcinelli e il governatore Mario Baffi. Inoltre era molto attiva la loggia P2 di Gelli e Ortolani nella questione dell’Eni-Petromin, in cui l’ente nazionale, per assicurarsi petrolio a prezzi vantaggiosi con i sauditi, sborsò una tangente da oltre 100 miliardi di lire <100, a memoria collettiva si ricorda la vicenda come una storia di finanziamenti ai partiti gestita per l’appunto dalla P2, per comprare alcune testate importanti del giornalismo italiano come il Corriere della Sera. Venne rinvenuta dai magistrati il 17 marzo una lista contenente 962 nomi: erano gli affiliati alla loggia massonica, guidata dall’imprenditore Gelli. Egli aveva scritto anche un documento, sequestrato nel 1982, chiamato “piano di rinascita democratica”, nel quale elencava «tutte le proposte di “riforma istituzionale” che dovevano servire a rivitalizzare il sistema inquinato dalla presenza del partito orientale e dalla politica compromissoria della Dc» <101. Nell’elenco comparve anche il nome del ministro democristiano della giustizia Adolfo Sarti, che si dimise immediatamente. La “questione morale” iniziò ad emergere proprio in seguito alla scoperta degli elenchi della P2 di Gelli nel 1981, che provocò il crollo del governo Forlani e favorì l’elezione alla Presidenza del Consiglio del primo laico, Spadolini. Il 1983 aprì la IX Legislatura. Il risultato più stupefacente fu il crollo della Democrazia cristiana che raggiunse il suo minimo storico, mentre il Pci scese dello 0,5% e il Psi salì dell’1,6%. Si inaugurò il governo di Bettino Craxi. Fin dall’inizio del suo mandato, Berlinguer tentò in tutti i modi di sbarrargli la strada, a partire in particolare dall’iniziativa del referendum per abrogare la legge sulla scala mobile nel 1985. Craxi era consapevole della paralisi del sistema istituzionale, bloccato nella morsa di due grandi partiti che avevano caratterizzato la storia politica italiana. Era convinto della necessità di una riforma istituzionale, che potesse instaurare il meccanismo della maggioranza-opposizione alla guida degli esecutivi. Il Pci, dal canto suo, era fortemente contrario ad una riforma del testo costituzionale, poiché essa avrebbe condotto ad un mutamento di azione dei comunisti all’interno del contesto politico, che in passato si erano fatti firmatari della carta costituzionale, che contribuì alla nascita della Repubblica in seguita all’epoca fascista. La battaglia contro il leader socialista si rivelò un vero e proprio autogol, perché nel paese, e persino in alcune fasce operaie, il mito della lotta di classe aveva ormai un eco debole, e di fronte alla prospettiva di ridare slancio alla crescita, i lavoratori erano pronti anche a fare qualche sacrificio <102. Diversa si preannunciò la “questione morale”, che fu un’arma politica che il Partito comunista rivolse contro tutti i partiti del governo, in particolare contro il Psi, additato come pilastro della partitocrazia corrotta <103. «La centralità di questa questione, come degenerazione e corruzione dei partiti, discendeva dall’intreccio anticostituzionale tra i partiti e i poteri pubblici, tra lo Stato e le istituzioni in generale» <104. «Il dilagante problema della corruzione era direttamente collegato al modo in cui i partiti venivano finanziati, partiti come ad esempio il Psi che avevano preso le risorse dalle casse del paese in misura direttamente proporzionale al loro peso elettorale» <105. Fu proprio la “questione morale” la tattica principale della politica comunista durante gli anni Settanta. I settori più sensibili al richiamo alla moralità da parte del Pci furono i giovani magistrati democratici e i giornalisti, che da un punto di vista politico erano schierati a sinistra. Queste due categorie sociali ebbero un ruolo fondamentale nell’avviare le inchieste per la corruzione e anche nel pubblicizzarle. Le inchieste e gli arresti convinsero i socialisti che stava avvenendo una congiura nei loro confronti, al punto che Craxi stesso «si fa quadrato intorno ai suoi uomini perseguitati dalla magistratura, “prigionieri politici” – come vengono definiti in casa socialista. È un errore, perché il problema della corruzione esiste ed è destinato ad ingigantirsi con il passare degli anni fino a diventare non ultima ragione del crollo dell’intero sistema e dello stesso Psi, che si disgregherà sotto una tempesta di avvisi di garanzia nella XI Legislatura» <106. Questa forte campagna antisocialista messa in atto dai comunisti fu efficace nel fermare l’ascesa degli uomini di Craxi, ma non fu tanto utile sul piano interno. Infatti, l’unico risultato positivo durante la IX Legislatura che il Pci raccolse fu alle elezioni europee del 1984, poco dopo la morte di Berlinguer. L’improvvisa morte del leader comunista, durante la campagna elettorale, concorse in parte a questa vittoria; sembrò quasi una lode alla scomparsa del segretario, la cui popolarità non aveva registrato forti consensi negli ultimi tempi. Finalmente il Pci fu il partito più votato d’Italia, sorpassando anche la Dc, scesa al 33,1%. Si rivelò, però, un superamento inutile perché venne «disperso dal nuovo segretario Alessandro Natta e dai dirigenti che lo affiancano […]. L’eredità lasciata da Berlinguer si rivela un patrimonio col quale non si riuscì a costruire nulla per l’avvenire vicino e lontano: il Pci si ritrovò senza alleati con i quali concordare una strategia per uscire dal ghetto dell’opposizione» <107.
[NOTE]
91 IG, APC, Fondo Berlinguer, Congressi Nazionali del Pci, fasc. 27, “Osservazioni sulla relazione di Berlinguer al XV Congresso del Pci”, nota dattiloscritta, 15 marzo 1979 in V. Gioiello, Nella crisi degli anni Settanta. I nodi della segreteria Berlinguer, in Novant’anni dopo Livorno. Il Pci nella storia d’Italia, in A. Hobel e M. Albertaro (a cura di), Editori Riuniti, Roma, 2014, p. 312.
92 F. Andreucci, Da Gramsci a Occhetto. Nobiltà e miseria del PCI 1921-1991, Della Porta Editori, Pisa, 2015.
93 S. Colarizi, Storia politica della Repubblica 1943-2006, Editori Laterza, Roma-Bari 2011, pag. 158.
94 XIV Congresso del Partito Comunista italiano, Relazione di Enrico Berlinguer, Editori Riuniti, Roma, 1975, pag.18-20 in V. Gioiello, Nella crisi degli anni Settanta. I nodi della segreteria Berlinguer, in Novant’anni dopo Livorno. Il Pci nella storia d’Italia, in A. Hobel e M. Albertaro (a cura di), Editori Riuniti, Roma, 2014, p. 313.
95 XII Congresso del Partito Comunista italiano, Relazione di Enrico Berlinguer, Editori Riuniti, Roma, 1975, pag. 56. Come sopra
96 C. Colarizi, P. Craveri, S. Pons, G. Quagliariello (a cura di), Gli anni ottanta come storia, Rubbettino, Soveria Mannelli, 2004, pag. 104.
97 V. Gioiello, Nella crisi degli anni Settanta. I nodi della segreteria Berlinguer, in Novant’anni dopo Livorno. Il Pci nella storia d’Italia, in A. Hobel e M. Albertaro (a cura di), Editori Riuniti, Roma, 2014, p. 322.
98 O. Fallaci, Intervista a Giulio Andreotti nel dicembre 1973, contenuta in Intervista con la storia, Rizzoli, 1973.
99 S. Colarizi, Storia politica della Repubblica 1943-2006, Editori Laterza, Roma-Bari 2011, pag. 128.
100 R. Paglialonga, Strane storie e mezze verità sulla maxitangente Eni-Petromin, “L’Occidente”, 11 ottobre 2009.
101 V. Gioiello, Nella crisi degli anni Settanta. I nodi della segreteria Berlinguer, in Novant’anni dopo Livorno. Il Pci nella storia d’Italia, A. Hobel e M. Albertaro (a cura di), Editori Riuniti, Roma, 2014, p. 328.
102 S. Colarizi, Storia politica della Repubblica 1943-2006, Editori Laterza, Roma-Bari 2011, pag. 158.
103 Ibidem.
104 C. Colarizi, P. Craveri, S. Pons, G. Quagliariello (a cura di), Gli anni ottanta come storia, Rubbettino, Soveria Mannelli, 2004, pag.112.
105 S. Colarizi, Storia politica della Repubblica 1943-2006, Editori Laterza, Roma-Bari, 2011, pag.158.
106 Ibidem.
107 Ivi, p. 159.
Carolina Polzella, Dc, Pci e Psi: la crisi delle grandi famiglie politiche nella “prima repubblica”, Tesi di laurea, Università Luiss “Guido Carli”, Anno accademico 2018-2019

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