Le memorie di alcuni partigiani dell’Alto Vicentino

Figura 5. Carta allegata all’opera di Vescovi (1976). Fonte: Andrea Rizzato, Op. cit. infra

Italo Mantiero “Albio” fu comandante della Brigata Loris (nome preso dopo la morte di Rinaldo Arnaldi “Loris”) della Divisione Alpina “Monte Ortigara”, operante nella zona di Villaverla, Montecchio Precalcino, Dueville e Caldogno. Scrisse le sue memorie circa 40 anni dopo gli avvenimenti, aiutandosi con documenti e testimonianze dei suoi vecchi compagni d’arme.
Dal suo volume si possono ricavare le posizioni di vari luoghi usati per riunirsi, ripararsi o nascondere armi e vettovagliamenti. Cita, ad esempio i campi della sua famiglia come nascondiglio per dell’esplosivo e il “Boschetto delle cassie” (lungo il Timonchio) e il torrente Igna come primi luoghi di raduno degli uomini da avviare all’attività partigiana. Nei campi dei Mantiero, in un rifugio tra il granoturco, verranno a nascondersi anche alcuni partigiani del gruppo di Giuriolo, tra cui Luigi Meneghello. L’autore accenna ad un deposito viveri a Calvene; non specifica il luogo esatto ma data la tipologia della merce, facilmente deperibile nell’umidità del sottobosco e attaccabile da animali e insetti doveva essere custodita in una struttura apposita nel paese vista anche la quantità rilevante (era infatti deposito viveri dei partigiani della montagna e della Pedemontana). Viene descritto con precisione (e riportato nel progetto) il viaggio verso il bosco di Granezza attraverso sentieri e abitati: “A piedi seguimmo la strada già percorsa dagli altri: Novoledo, Montecchio, argine sinistro dell’Astico fino a Calvene, Monte di Calvene, Bocchetta di Granezza e Bosco Nero di Granezza sul Monte Aco. Il percorso di 40 Km circa, venne compiuto in una sola notte, camminando silenziosamente nei tratti abitati, attuando le misure richieste dal difficile cammino. […] Io replicai che durante il viaggio, anche se fatto per i sentieri, non avevo notato nessun movimento di nemici.”
Dopo il rastrellamento di Granezza (6 settembre 1944) in cui erano concentrati un gran numero di battaglioni partigiani, le unità e i singoli ribelli che riescono a sfuggire (anche qui soprattutto grazie alla vegetazione e al buio sopraggiunto) seguono varie strade per tornare a rifugi sicuri. Un altro percorso che viene citato è quello seguito per arrivare al convegno dell’osteria Val di Sotto a Lugo di Vicenza. “Albio” dedica infine un intero capitolo ai nascondigli usati da lui e dai suoi uomini: una gran quantità di questi (probabilmente la maggior parte) era situata all’interno di case private, come cantine (il cui accesso veniva occultato) o doppie pareti. Molti altri erano in campagna, in buchi scavati nei campi o in capanni per gli attrezzi o per la caccia, il più usato dei quali fu dei fratelli Filippi, nei pressi di un boschetto e nascosto da grandi olmi. L’autore riporta anche la ricerca di gallerie e nascondigli in ville antiche seguendo i detti popolari che le volevano spesso collegate tra loro tramite cunicoli segreti, ricerche che però non diedero mai frutto. Conclude citando anche l’episodio dello sfortunato partigiano Silvano Testolin “Fifi”, in cui il bosco è protagonista in negativo dato che “mentre camminava tra i cespugli del sottobosco a Granezza, fu straziato da una bomba che portava alla cintola dei pantaloni, la cui sicurezza era stata strappata da un ramo”.
[…] Giulio Vescovi (nome di battaglia “Leo”) fu comandante della brigata Fiamme Verdi della Divisione Alpina Monte Ortigara e vicecomandante del Gruppo Brigate “Sette Comuni”, operante nella zona pedemontana tra l’Astico e il Brenta. Scrisse le sue memorie di guerra circa 30 anni dopo la Liberazione.
Dal suo scritto si ricava che la zona di Fara era indicata dai comandi alleati come zona di rifugio tanto che piloti e paracadutisti angloamericani abbattuti nei dintorni ripetutamente si sono diretti verso la pedemontana vicentina in cerca di una via di scampo. In numerosi la trovarono grazie ai viaggi di Rinaldo e Mery Arnaldi che portarono in Svizzera 18 soldati alleati documentati oltre a ebrei e italiani condannati a morte tanto che Rinaldo (nome di battaglia “Loris”) venne insignito della medaglia di Giusto tra le Nazioni. “Leo” ricorda come il bosco fu anche al centro delle attenzioni dell’Organizzazione T.O.D.T. (O.T.) il cui scopo consisteva nel costruire fortificazioni, alloggiamenti, caserme ed eventualmente fornire carburante di fortuna alle unità tedesche in zona; per fare ciò, abbisognava di grandi quantità di legname, comprate tramite operatori di zona (coperti dalle autorità nazifasciste) che sfruttarono e disboscarono grandi porzioni di bosco dell’Altopiano e della Pedemontana. Vescovi sottolinea come le formazioni partigiane abbiano cercato di “impedire il progressivo impoverimento del bosco non solo a difesa di un grande patrimonio economico, ma altresì perché lo sfoltimento del bosco costituiva un grave pericolo per gli stessi combattenti, non più protetti dalla vista di osservatori nemici” riconoscendone quindi sia il ruolo di riparo che quello di risorsa economica. D’altra parte, la situazione creava anche non trascurabili vantaggi dato che la stessa organizzazione TODT costituiva un’ottima copertura per molti partigiani, i quali potevano così girovagare liberamente, inoltre gli stessi “imprenditori del bosco” nel tentativo di accattivarsi i partigiani (e soprattutto di crearsi un alibi per il futuro), fornivano spesso supporto ai ribelli acquistando e trasportando armi e viveri nei loro camion. Il comandante Leo allega al suo lavoro alcune carte con lanci, dislocazione delle armate e loro movimenti delle quali una dedicata alla zona della pedemontana e dell’altopiano (Figura 5. Carta allegata all’opera di Vescovi (1976)); si è provveduto a riportare le posizioni delle unità partigiane nel progetto in QGIS (includendo solo quelle della zona d’interesse), per confrontarle con la presenza di boschi. L’autore riporta inoltre l’uso dei boschi come riparo per la popolazione (in particolar modo gli uomini) durante i rastrellamenti: “Tutta la popolazione si tappò in casa, mentre gli uomini che temevano di essere rastrellati o fermati come ostaggi, fuggivano lungo i sentieri che portano ai vicini boschi cedui”. Dopo la battaglia di Granezza Vescovi scrive di alcune unità della brigata Mazzini ritiratesi nella zona di Fara, Calvene, Lugo. Elenca quindi le istruzioni per la costruzione di bunker in cui passare i giorni aspettando il buio (in occasione del duro inverno 1944/’45) e sottolinea come i luoghi migliori siano “al limitare dei boschi e lungo gli argini dei campi”. Questi rifugi andranno costruiti usando speciali accorgimenti: seminterrati, in legno, con letti a castello, mimetizzati con le foglie e il fumo prodotto deve essere depurato con ripiani di aghi di pino. L’autore descrive poi l’importante incontro tra comandanti partigiani avvenuto nella canonica di Povolaro nel febbraio del ’45 nel quale si decide, tra le altre cose, lo spostamento del comando partigiano a Sarcedo proprio in un bosco (il bosco Ranzolin) sentito quindi come più sicuro rispetto al paese stesso. Inoltre, Vescovi per primo cita i boschi come rifugio per tutta la popolazione dei villaggi in cui transitava la ritirata tedesca (che passava proprio attraverso l’Alto Vicentino), quando maggiore era il pericolo di battaglie, rappresaglie o anche massacri indiscriminati.
[…] Zaira Meneghin fu una staffetta partigiana originaria di Marostica da una famiglia socialista e antifascista fin dalla tenera età; durante la guerra teneva i collegamenti tra le varie unità partigiane dell’alto vicentino correndo estremi pericoli, che le valsero una medaglia d’argento al valor militare e il grado di Capitano. Pubblicò la sua opera nel 1989.
Conosciuta dai suoi compagni e compagne semplicemente come “Zaira”, inizia ricordando la sua cattura e la sua esperienza nelle carceri fasciste nel marzo del 1945, periodo in cui i nazifascisti riescono a mettere in estrema difficoltà il movimento partigiano. Dopo essere stata torturata e picchiata brutalmente insieme al parroco di Nove don Luigi Panarotto (accusato di collaborare coi partigiani) e il comandante “Nino” Bressan, riuscirà ad uscire solo a fine marzo, con la complicità di Nino Cammarota, una delle guardie fasciste. Ricominciò quasi subito la sua attività ma un mese dopo, in piena ritirata nazista, Meneghin fu testimone delle ultime ore di vita di Giacomo Chilesotti “Nettuno”, Giovanni Carli “Ottaviano” (rispettivamente comandante e commissario politico della già citata Divisione Alpina Monte Ortigara) e il partigiano Attilio Andreetto “Sergio”. In quell’occasione “Zaira” fu nuovamente catturata e portata come ostaggio lungo la ritirata tedesca e veniva esposta e minacciata di fucilazione ad ogni attacco dei partigiani, in quello che lei descrive “il mio balletto con la morte”. Giunta a Trento con i suoi aguzzini fu finalmente liberata dai partigiani del Comitato di Liberazione Nazionale di Trento proprio la notte prima della sua esecuzione. Impiegherà mesi a riabilitarsi del tutto, durante i quali riesce comunque a dare il suo prezioso contributo alla riorganizzazione civile a Trento, fino al suo ritorno a Marostica nel maggio del 1945.
Sono numerose le occasioni in Meneghin cita i boschi descrivendo i suoi percorsi, soprattutto quando rastrellamenti o pattuglie la obbligavano a cercare strade e deviazioni più sicure. Accompagnando il partigiano “Negro” dalla sorella “presi la via dei boschi” per evitare le pattuglie nazifasciste e sempre in sua compagnia utilizzò sentieri e mulattiere per dirigersi in Valrovina. Zaira cita un episodio in cui dopo aver ricevuto gli ordini da diramare è sorpresa da un plotone di fascisti che giustizia tre giovani alla chiesa di San Michele (frazione di Bassano del Grappa), e mentre i suoi comandanti si incamminano per i boschi, lei riesce a nascondersi in un cespuglio di rovi fino al mattino, quando si incammina verso Marsan tra i boschi.
Andrea Rizzato, I boschi dell’Alto Vicentino come rifugio durante la seconda guerra mondiale, Tesi di laurea, Università degli Studi di Padova, Anno Accademico 2021-2022

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Pensionato di Bordighera (IM)
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