Il conoscitore di Berto sa che questo tipo di racconto non vuole essere un’apologia al regime fascista

Il brigante, a ogni modo, non si esaurisce nel suo significato politico. Si tratta di un romanzo che in realtà contiene al suo interno la maggior parte dei temi ricorrenti in Berto. Prima di tutto quello dell’infanzia dato che Nino, il narratore, è un bambino e tutta la storia è raccontata dalla sua prospettiva. «la guerra non è, in fondo, opera di uomini bensì opera di Dio, o manifestazione d’un “male universale” che determina la condotta degli uomini scaricandoli da ogni responsabilità». <699
Tale predestinazione si scioglie prima o poi dalla teoria e diventa atto, colpa reale. Quando l’atto stesso o i suoi effetti diventano palesi e un soggetto altro identifica il colpevole, quest’ultimo può provare vergogna morale. Tengo a precisare che il soggetto altro può anche essere il proprio Io: infatti la vergogna è ricorsiva e riflessiva, vale a dire che ci si può vergognare di se stessi.
Questo tipo di dinamica è molto vicina all’attuarsi in un passo del Brigante in cui Nino, dopo aver passato un’ora in commissariato in seguito a una rissa in cui ha avuto la peggio, con il viso pesto torna a casa: «Mi rialzai come potei e mi avviai verso casa. Per tutta la strada riuscii a non piangere. Non dovevo piangere. Sarebbe stato ridicolo se adesso uno come me si fosse messo a piangere perché si era preso un sacco di botte. Ma non erano le botte, lo sapevo bene. Era che avevo tutto il male del mondo contro di me, la perfidia e l’odio e l’ingiustizia, e io mi trovavo solo a sopportare tutto quel male, e desolato. E non c’era modo di combattere il male, nessuna via, all’infuori della rivolta». <700
In quell’istante Nino è solo, nessuno è in grado di vedere il suo volto e, all’occorrenza, di vederlo piangere. Tuttavia Nino è posto di fronte un se stesso ulteriore che lo osserva costantemente e che lo deriderebbe se lo vedesse lacrimare. Se Nino iniziasse a piangere, quindi, proverebbe vergogna di se stesso.
Facendo più attenzione, ci si accorge in realtà che la vergogna si attiverebbe soltanto se il vulnus fosse costituito dalle botte, vale a dire se la pretesa di Nino su se stesso – «sarebbe stato ridicolo se uno come me» – fosse disconfermata. Tuttavia il rovello è inutile, perché Nino non ha voglia di piangere per le percosse, ma perché sente su di sé un male superiore, quel male universale impossibile da fermare. In questo caso, Nino ricorda il prigioniero nei Lager che non soffre per i colpi ricevuti, ma per l’impossibilità a ricondurli a una colpa definita. Anche se il bambino parla qui della possibilità della rivolta, si tratta di un ultimo colpo di coda infantile, proprio di un ragazzino che non vuole darsi per vinto perché sarebbe contro la sua natura.
Nel passo immediatamente successivo si vede chiaramente che l’accenno alla propria desolazione, alla solitudine nel sopportare il peso del dolore, ha un’importante vena edipica, un tema che tornerà violentemente nel Male oscuro: «Così mi presentai sulla porta di casa, con le forze tenute su da un filo di orgoglio e il viso trasfigurato dalle botte. Mio padre mi guardò e rimase indifferente. Mia madre fece l’atto di accorrere, poi ebbe paura di mio padre, tornò a sedersi. Allora io presi la porta delle scale e andai a buttarmi sul letto, e bisognò lottare contro una voglia più forte di piangere, perché ora ero proprio abbandonato da tutti, perfino da mia madre». <701
Come in Episodio, la madre del protagonista ha paura del marito e si ritira, non ha il coraggio di contraddire la sua immobilità di fronte al figlio. A questo punto Nino si sente definitivamente abbandonato e in contrasto con il genitore, ma non solo per il possesso della madre: lungo il corso della trama, infatti, è chiaro che Nino combatte costantemente contro la vergogna, mentre il padre si ammutolisce e soccombe, soprattutto quando Miliella va via di casa. Si tratta quindi di due personaggi profondamente in contrasto anche da un punto di vista emozionale.
«Forse non gliene importava più come prima del podere e del raccolto, ma si attaccava alla terra perché era fatica, e lavorava sempre con rabbia, come se ciò avesse potuto liberarlo dalla vergogna. Perché per lui era vergogna, più che dolore». <702
«Ma io non ero come mio padre. Non provavo vergogna, io, di fronte a nessuno». <703
Nel Brigante riconosciamo quindi un libro profondamente bertiano – sebbene si tratti del meno fortunato – proprio a partire dalla presenza dei suoi temi ricorrenti: l’infanzia, il male, la lotta contro il padre e il complesso edipico, la vergogna, il suicidio e la colpa. Michele Rende infatti compirà una sorta di suicidio, una rincorsa verso la morte che, quattro anni prima, aveva già percorso Daniele nel Cielo è rosso e che, quasi trent’anni dopo, avrebbe ripercorso Gesù Cristo in La gloria.
Guerra in camicia nera non terminerà con un suicidio, ma con la partenza verso un luogo di prigionia, in cui il punto di morte dell’autore e dei suoi compagni subirà un mutamento, come abbiamo visto. Una dimensione, quindi, fuori dalla Storia e dal tempo.
Le ultime pagine di Guerra in camicia nera sembrano profetiche dato che, in un libro scritto nella forma del diario di guerra, sono le uniche pagine in cui non viene specificata una data e un luogo; vengono infatti introdotte con un laconico: «Senza data, alcuni anni dopo». In questo explicit rinveniamo il racconto di un episodio, che porterà l’autore all’isolamento politico, e alcune considerazioni sulla vergogna.
Vi si narra, dunque, il momento in cui i soldati italiani, ormai catturati dagli Alleati, vengono caricati su una colonna di autocarri per essere trasportati verso una meta a loro ignota. La colonna, a un certo punto, si ferma a un bivio intorno al quale inizia a nascere la città, fitto di case com’è. Così si viene formando una folla che insulta i prigionieri fascisti. Ma una bambina – ancora una volta una bambina – si tiene discosta, nei pressi di una fontana. Nel suo vestito celeste aspetta che la colonna le passi di fronte, una volta ripresa la marcia. Quando ciò accade, rischiando probabilmente un linciaggio, sale sul gradino della fontana e li saluta romanamente.
Si tratta di un racconto equivoco, certo un errore politico concludere un libro così, nel 1955. Il conoscitore di Berto sa che questo tipo di racconto non vuole essere un’apologia al regime, ma una testimonianza di cosa pensava un soldato fascista che era diventato, mi si passi l’ossimoro terribile, “fascista in buona fede”. Si tratta quindi di una excusatio, un libro scritto per spiegare e per tornare ad avere legittimità di parola, per far capire al pubblico come si può diventare fascista e poi democratico, grazie all’esperienza. Tuttavia, concludere il libro in questo modo ha avuto come risultato l’effetto opposto.
Ma veniamo a ciò che l’autore scrive riguardo la vergogna, qui certamente connessa alla predestinazione e al male universale: «Molti, in attesa del sonno, parlarono della ragazza vestita di celeste. Ne parlarono con quel senso di vergogna che lei ci aveva fatto provare, per aver perduto dopo che le avevamo insegnato ad aver fede in quel gesto che lei continuava a fare anche dopo che noi avevamo perduto. Poi, col tempo, dimenticammo il senso di vergogna. Dovemmo fare un lungo cammino, prima di poter tornare a casa. E mentre il tempo passava, nell’eco delle cose che succedevano nel mondo, noi perdemmo la vergogna di aver perduto. Ci parve anzi di aver fatto abbastanza per non perdere. E nei confronti della ragazza vestita di celeste ci sentimmo meno responsabili di tanti altri. Il suo gesto rimase nella nostra memoria, ma spoglio di qualsiasi carattere di lotta e resistenza, come un atto di bontà pura. E così lo ricordiamo, con riconoscenza, perché poi non ci accadde di trovare molti altri atti di bontà nel nostro lungo cammino». <704
In questo passo assai controverso si nasconde un atteggiamento tipico di Berto: l’esposizione totale della propria colpevolezza, l’atto di sincerità smaccata tipico dell’autobiografo che cerca nel suo pubblico una redenzione. Berto non vuole fare come secondo Rousseau fece Montaigne, ovvero comunicare al lettore, tra tutti i propri difetti, solo quelli amabili. <705 Vuole, al contrario, sondare con esso il proprio dolore e la propria irrimediabile colpa.
Nel passo appena citato, il soldato non prova vergogna di fronte al nemico vincitore, perché questo fa parte dell’ordine naturale delle cose: le guerre si vincono o si perdono. Prova invece vergogna di aver creduto in un ideale, di avere perso e, nonostante tutto, di trovarsi di fronte a una bambina innocente che come lui, per educazione e determinismo, aveva creduto nella retorica di regime. Vale a dire che la propria pretesa di soldato viene disconosciuta non dai nemici, ma da una piccola bambina che sembra avere più “onore” e meno paura di loro: di fronte a lei prova vergogna morale, perché il suo gesto è plateale e viene agìto in pubblico.
Questo è ovviamente il pensiero di un soldato fascista, anche se un po’ disallineato: ma c’è da aspettarselo, dato che questo racconto è una mimesi dei pensieri dell’autore quando era giovane, non una esplicazione del proprio pensiero del 1955; per quest’ultimo la sede idonea è la prefazione, che citerò a breve.
Nel secondo capoverso dell’ultimo passo citato, la vergogna subisce uno svilimento, perché altrettanto accade all’idea di responsabilità e, quindi, di colpa. Dopo alcuni anni di prigionia, al soldato sembra di essere tornato momentaneamente in pari nella terribile bilancia che misura il dolore arrecato agli altri e quello subìto: proprio per questo sceglierà di non collaborare con il nemico, per portare il peso della propria responsabilità fino in fondo e, probabilmente, per espiare. Il gesto della bambina, una volta che l’ideale fascista è appassito nella mente del soldato, non ha più un valore militare o eroico, ma diventa un banale quanto commovente gesto infantile di bontà, l’ultimo prima del suo ritorno in Italia.
Oggi sappiamo che nella vita di Berto, dopo il purgatorio chiamato Hereford, nulla è andato in questa direzione, vale a dire che l’autore non si è mai sentito libero dalla colpa di essere stato un soldato fascista, la sua vergogna è rimasta intatta. Ha tuttavia dichiarato, ripetutamente, che il suo rapporto con il fascismo è consistito, dopo la guerra, in una «rottura intima, totale e definitiva: come sanno benissimo coloro tra i miei compagni che sono rimasti fascisti». <706
Venendo alla prefazione al libro, Berto esprime in questo luogo del testo una serie di concetti che – si direbbe miracolosamente viste le conseguenze – appaiono oggi in netta affinità con quelli espressi da Italo Calvino nella prefazione del 1964 a Il sentiero dei nidi di ragno, romanzo che racconta la vicenda opposta a quella di Guerra in camicia nera, ovvero la lotta partigiana.
Il libro di Berto è prima di tutto introdotto da un’epigrafe firmata da Ippolito Nievo: «Io non son facile a farmi amici e camerati di questi entusiasti di mestiere». A partire da questa frase dovremmo capire che l’autore dichiara, sin dal principio, la propria profonda differenza rispetto ai commilitoni di allora. Ippolito Nievo qui sembra ricalcare il pensiero del soldato protagonista in Economia di candele e Gli eucaliptus cresceranno. Per rendere chiaro questo concetto, analizziamo più da vicino la prefazione al libro, che così ha inizio: «Se pubblico questa cronaca di guerra a oltre dieci anni di distanza dagli avvenimenti che vi sono raccontati, è perché ho fiducia che si tratti di un lavoro semplice e onesto, e Dio solo sa quanto ce ne sia bisogno. Credo che finora nessuno abbia scritto sulla guerra, e in particolare sulle camicie nere, sia per difenderle che per offenderle, cose libere da quell’accanimento con cui abbiamo combattuto gli uni contro gli altri, e soprattutto libere dalla retorica, la quale, essendo il più costante dei nostri difetti, pare debba passare in eredità da una generazione all’altra». <707
In questo passo Berto evidenzia l’alta temperatura del dibattito politico di metà anni Cinquanta, durante i quali egli stesso vuole porsi come giudice super partes e scrivere delle camicie nere senza prenderne le difese o accusandole. Inoltre, è già chiaro quale sarà il suo obiettivo critico durante tutto il corso della vita: la retorica. Riconosciuta come il peggior male messo in atto dal regime, proprio perché l’autore stesso è stato abbindolato dalla propaganda di regime, nel dopoguerra la retorica di qualsiasi genere diventa il bersaglio preferito del moralista Berto. Abbiamo già visto, chiaramente, come l’atteggiamento guerresco e il fare epico siano addirittura accostati alla sfera del ridicolo, nella scrittura bertiana.
La prefazione così continua: «Non pretendo né desidero che questo mio diario abbia valore di documento storico. Mi accorgo benissimo che “io”, la prima persona del diario, è un personaggio come di romanzo, e personaggi sono pure gli altri intorno a lui, perché tutti, pur condizionati ad avvenimenti che io conosco assolutamente veri, si muovono in un’aria di fantasia. Tuttavia spero che il mio lavoro conservi sufficiente sapore di realtà da testimoniare in me, e in tanti altri che come me servirono il fascismo con la convinzione di servire l’Italia, una essenza morale valida anche oggi». <708
In questo passo invece, Berto presenta il libro come un’opera che si situa a metà strada tra realtà e finzione. A ogni modo, dato l’uso della prima persona e della datazione di ogni paragrafo, è chiaro che l’io narrante vuole qui rispecchiare il modo di pensare e di agire di un giovane Berto non ancora convertito alla democrazia: ricalca quindi, e in modo dichiarato, il pensiero di un uomo ancora fascista e quindi ancora colpevole. Ovviamente il passo in cui si fa riferimento a «un’aria di fantasia» è recepibile non solo come un’auto critica letteraria – peraltro corretta, perché l’aria di fantasia è realmente presente – ma, nella pratica, come tecnica per alleggerire la propria responsabilità riguardo allo scritto. Confondere le acque del patto autobiografico <709 è una mossa retorica tipica in Berto, come si vedrà più in là nell’introduzione al Male oscuro. Si tratta di una forma di reticenza e quindi di un atto di vergogna.
L’ultima frase del passo era ovviamente fraintendibile nel 1955, ma oggi abbiamo l’obbligo di leggere queste frasi con superiore lucidità: Berto qui non sostiene che la morale fascista sia valida ancora oggi, ma che il suo coinvolgimento nel fascismo era stato “in buona fede”, cioè nella convinzione di costruire un mondo migliore, come appunto è capitato a Davide Lajolo, ad Alberto Moravia, a Elio Vittorini.
Berto vuole sottolineare la propria buona fede ed è assurdamente cosciente che si tratti, in quel momento storico, di un errore: «questo è un libro» scrive «che dispiacerà a molte persone». Vale a dire che è pienamente cosciente di compiere una sorta di suicidio politico, del fatto che sta seguendo in pieno una propria pulsione di morte.
È interessante vedere, inoltre, come dà seguito al proprio pensiero: «Questo è un libro che dispiacerà a molte persone, ma io sarei addolorato se dispiacesse ai miei vecchi camerati […]. Temo tuttavia che a loro dispiacerà inevitabilmente, e per scusarmi posso dire soltanto che non ho scritto di proposito alcuna cosa che potesse offenderli, ma di aver preso sinceramente come norma la mia misura delle cose, che era diversa dalla loro allora, e più diversa lo è, forse, oggi». <710
Ancora una volta un mea culpa, questa volta diretto ai suoi compagni, accompagnato tuttavia da una dichiarazione forte nei loro confronti: l’affermazione della diversità tra lui e loro; diversità di allora (fascista non allineato) e di oggi (democratico, non fascista). In questo luogo del testo ha inizio, inoltre, l’esposizione di uno di quei pensieri che Berto ha in comune con il Calvino della Prefazione, ovvero le scuse nei confronti di quelle persone reali che, diventate personaggi, hanno probabilmente subìto una distorsione da loro non sicuramente apprezzabile: «Se parlo anche dei difetti delle camicie nere, della loro indisciplina e della loro occasionale paura, se le faccio combattere e morire da uomini e non soltanto da eroi, è perché in questo modo io le ho capite, e così le ho descritte». <711
In questo caso, Berto replica l’atteggiamento narrativo adottato prima della guerra nella scrittura della Colonna Feletti: non narra retoricamente le vittorie del regime, la loro ridicola eroicità – come direbbe lo stesso Berto – ma la loro sostanza umana, al di là della retorica. Nel corso della narrazione, infatti, le camicie nere sembrano tutto tranne che ardite, e l’autore mostra un esercito italiano quasi grottesco a causa della sua palese disorganizzazione. Si tratta di militari incapaci di mimetizzarsi, poveri di mezzi, costretti ad assalti assurdi dato che gli viene richiesto, in almeno un’occasione, di attaccare dei carri armati inglesi con dei vecchi fucili della precedente guerra in Africa.
Le scuse chieste da Berto ai suoi commilitoni sono inutili, perché il suo modo di pensare di giovane soldato era già troppo antiretorico per poter cadere nelle ingenuità dell’epicofascista. Nella Prefazione di Calvino, come ho anticipato, si ritrova un concetto simile: «Le deformazioni della lente espressionistica si proiettano in questo libro sui volti che erano stati dei miei cari compagni. Mi studiavo di renderli contraffatti, irriconoscibili, “negativi”, perché solo nella “negatività” trovavo un senso poetico. E nello stesso tempo provavo rimorso, verso la realtà tanto più variegata e calda e indefinibile, verso le persone vere, che conoscevo come tanto umanamente più ricche e migliori, un rimorso che mi sarei portato dietro per anni…». <712
[NOTE]
697 G. Berto, L’inconsapevole approccio, cit., pp. 73-74.
698 G. Berto, Il brigante, cit., p. 12.
699 G. Berto, L’inconsapevole approccio, cit., p. 68
700 G. Berto, Il brigante, cit., p. 179.
701 Ivi, pp. 179-180
702 Ivi, pp. 173-174.
703 Ivi, p. 177.
704 G. Berto, Guerra in camicia nera, cit., p. 196.
705 «Avevo sempre riso della falsa schiettezza di Montaigne che, fingendo di confessare i propri difetti, pone molta attenzione ad attribuirsene solo di piacevoli». J.J. Rousseau, Le confessioni, cit., p. 600.
706 G. Vigorelli, Domande a Giuseppe Berto, cit., pp. 64-65.
707 G. Berto, Guerra in camicia nera, cit., p. 9.
708 Ibidem.
709 Philippe Lejeune, Le pacte autobiographique, cit.
710 G. Berto, Guerra in camicia nera, cit., pp. 9-10.
711 Ivi, p. 10.
712 Italo Calvino, Prefazione 1964 al Sentiero dei nidi di ragno in Romanzi e racconti, I, Mondadori,
Milano, 1991, p. 1190.
Saverio Vita, Autobiografi della vergogna. La vergogna come dispositivo narrativo nella letteratura autobiografica e testimoniale del secondo dopoguerra, Tesi di dottorato, Alma Mater Studiorum – Università di Bologna, 2016

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Pensionato di Bordighera (IM)
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